Con un claim che recita “Try not to come back if you can” (“prova a non tornarci se riesci”), Burgez non è solo un nuovo fast food che attira l’attenzione, ma un nuovo modo di intendere la comunicazione al pubblico. Almeno in Italia, si tratta dell’iniziativa di marketing più irriverente e coraggiosa in decenni, oseremo dire. Una catena di ristoranti che “grida” ai potenziali avventori, anche con messaggi “civetta” (una scritta SEX gigante in vetrina cattura l’occhio, ma se entri ti servono hamburger, per giunta vestiti!). E The Way Magazine ha avuto la possibilità per parlarne con il fondatore, CEO e direttore della comunicazione Simone Ciaruffoli.
L’imprenditore dell‘insegna che sta spopolando (8 punti vendita a Milano, uno a Torino e uno a Roma) è a capo anche di “Upper Beast Side”, l’agenzia di comunicazione che già nel nome fa il verso a un’area posh di New York ed è quindi tutto un programma su come intende la sua mission.
È appena uscito il tuo terzo libro edito da Mondadori dal titolo “Il Vangelo secondo Burgez”. Di cosa parla?
Il libro narra la storia di Burgez, dalla sua nascita soltanto cinque anni fa alla sua valutazione di 50 milioni di euro. “Il Vangelo secondo Burgez” è come una mappa, come un navigatore che conduce il lettore all’interno di un grande percorso imprenditoriale. C’è tutto. Come mettere in piedi un’azienda partendo da zero e trovando i primi finanziamenti, come non arrendersi mai di fronte ai mille imprevisti e mille difficoltà, come svincolarsi nei meandri della burocrazia italiana, come strutturare il marketing, come farsi furbo, come farsi buono oppure cattivo, come raggiungere l’obbiettivo prefissato. Un Vangelo prezioso, un libro che io consiglierei di tenere sempre sul comodino per rileggerlo ogni volta che pensiamo di non potercela fare. Finita marchetta.
La tua idea di business è venuta in mente in America. Cosa ci facevi e quanti anni avevi?
Ero lì perché volevo cambiare vita e Paese. Volevo lavorare nel mondo del marketing, ma poi ho incontrato un barbone che mi ha cambiato la vita. Mi ha donato un piccolo diario dove dentro c’era la ricetta di un hamburger. Il resto è storia…
Come si è evoluta l’idea? Cosa hai applicato e cosa hai lasciato perdere?
L’idea è rimasta sempre la stessa. Quella di proporre al cliente italiano un vero hamburger e non i soliti panini gourmet. In realtà un’idea è un po’ come la crescita di una persona, un percorso di vita, parti in un modo e arrivi cambiato, in un altro modo. Ma in questo caso devo dire che Burgez è rimasto più o meno quello che era in partenza, nel 2016. Ma solo perché, probabilmente, il concetto, l’idea, erano semplicissimi.
I ragazzi che entrano nel tuo mondo sono attratti dalla pubblicità irriverente e diversa. Da chi hai preso spunto?
Da me stesso. Non esiste al mondo una comunicazione riguardante la ristorazione che abbia un atteggiamento avverso al suo cliente. Ovviamente è una messinscena, una forzatura, ma ogni comunicazione è una messinscena. Per converso, anche il ristoratore che dice che il cliente ha sempre ragione produce una forzatura, una bugia, una messinscena.
Gli addetti di risk management erano preoccupati?
Non so chi siano.
I nomi dei burger sembrano meno creativi degli slogan, è una differenza voluta?
Non deve mai essere creativo ciò che si pronuncia ogni giorno altrimenti diventa tautologia, stucchevole. Tu ti chiami Christian, io Simone, e credo che nessuno dei due abbia mai pensato che i nostri genitori non siano stati abbastanza creativi avendo come bacino di scelta tutte le parole del mondo. Pensa che sfiga chi si chiama Kimberly, Chanel oppure Nathan Falco.
Come fate successo con una comunicazione che non esalta le solite materie prime premium e la bontà del prodotto?
Che tu dica che il tuo prodotto è il migliore o il peggiore, stai comunque facendo una forzatura. Nessuna delle due è una verità. Il cliente questa cosa non la sa ma la percepisce. Quando diciamo che il nostro hamburger fa schifo la gente non ci crede, ma sarebbe titubante anche se dicessimo che è il migliore al mondo. La gente dunque non pensa che faccia schifo davvero ma pensa: “Quanto sono matti questi, che comunicazione strana”. Così facendo sposti l’attenzione del cliente dal prodotto alla comunicazione del medesimo. Una volta che le persone si appendono in massa alla corda della comunicazione, è un attimo agitarla per farli cadere tutti sopra all’hamburger sottostante quella comunicazione.
C’è un coordinamento tra il lay out della pubblicità e quello che si respira nei negozi?
Assolutamente no. Proprio perché la comunicazione è una bugia e i negozi sono la verità. Esistono davvero e il cliente si deve trovare bene.
Cosa pensi dei giganti del fast food?
Penso che siano morti da tempo ma che stiano scomparendo piano piano perché sono davvero immensi. Non hanno fatto rumore quando sono apparsi qua e là come funghi, e non faranno rumore quando se ne andranno. Sono in piedi solo per due motivi. Primo perché il loro modello di business, basato sul franchising, attutisce i fallimenti sottraendo loro, in parte e in maniera provvisoria, il rischio d’impresa. Secondo perché possono permettersi di contenere i costi in maniera imbarazzante e dunque di tenere dei prezzi surreali. Se fai pagare un hamburger 1 euro hai in mano la killer application del secolo.
Pensi mai all’italianità nell’immagine di Burgez o nei sapori che promuovete?
No. Se il nostro obiettivo fosse stato quello dell’italianità avremmo aperto delle pizzerie. Sono italiani invece la nostra azienda e il nostro brand.
A chi volete ancora arrivare?
Vorremmo far mangiare i nostri hamburger di carne a tutti i vegani del mondo. Vorremmo farli sentire carnivori almeno per un giorno.