La scomparsa dell’artista americano Robert Indiana, tanto pop da prendere il cognome dallo stato d’appartenenza, quindi da una cosa che esiste già, è indicativa sotto molti punti di vista.
Scompare una delle ultime voci della Pop Art degli anni 60 del Novecento, quel movimento che della grafica e della pubblicità si è cibato e che ha rivoluzionato l’immaginario popolare dei decenni a venire. Parte dell’appeal della pop art sono proprio i simboli. E di simboli (o meglio simbolo) Robert Indiana è morto, nel senso che per sempre la storia ha cristallizzato il suo nome nell’opera pop per eccellenza, la tridimensionale LOVE, quella delle quattro lettere sedute due sopra le altre, con quella “O” a creare l’unica dissonanza percettibile.
Ha fatto altro Indiana, ovviamente. Ma le lettere rosse sono consegnate alla popolarità, che a volte intrappola i geni anche più sregolati. Lui che si definiva un “sign painter”, pittore di insegne, è davvero un catturatore del linguaggio contemporaneo. Ma non c’è da duolersi.
Il contemporaneo che abbraccia l’icona LOVE di Robert Indiana è trasversale e valido oggi come 60 anni fa. Regge bene l’urto dei tempi, è replicabile in digitale come sulle t-shirt, popola la nostra fantasia con innumerevoli riapparizioni che sfuggono alla regola spazio-tempo. Soprattutto non è relegato in un museo o in un luogo specifico. Il contemporaneo di LOVE, a partire dalla scelta stessa di questo nome comune di cosa, alberga ancora in tutti noi. Ed è questo che lo renderà, probabilmente, immortale.