Con Lo Strano Vizio della Signora Wardh Sergio Martino ha esordito già da leggenda nel cinema italiano, lanciando l’astro nascente di allora, Edwige Fenech. Da quel momento, era il 1970, decine di film bollati come B-movie (o un tempo si diceva “di cassetta”) e tonnellate di critiche sulla carta stampata. Ora che il mood generale riabilita quegli anni e quel tipo di cinematografia, è il momento giusto per fare uscire un interessante libro biografico, Mille Peccati…Nessuna Virtù?, proprio come il suo primissimo film (era un sexy-documentario) del 1968. E, diciamocelo, con una frase che sintetizza molto il giudizio che fino a qualche tempo fa veniva tributato a Sergio Martino, il regista dei film “di genere” italiani, in antitesi a quelli “d’autore”.
Che tipo di libro ha fatto, signor Martino?
Volevo raccontare, appoggiandomi ai miei ricordi, la storia del lavoro di un regista trash emerito, come mi diverte considerarmi ora. Non ho toni trionfalistici ma cerco di bilanciare gli insulti dei critici all’uscita dei miei film, negli anni Settanta e Ottanta, e quello che succede ultimamente.
Cioè?
Incontrare Quentin Tarantino che si inginocchia davanti non era nelle previsioni. Sono contento di ricevere commenti da giovani che possono oggi apprezzare quello che ho fatto grazie ai dvd. E alle citazioni che mi fanno Quentin Tarantino, Eli Roth, Jaume Balaguerò e altri autori e critici stranieri.
Lei è un maestro che ha spaziato. La grande avventura, le commedie, i gialli, perfino il genere cannibalesco. Che ricordo ha?
Erano anni in cui producevamo 350 film all’anno perché erano visti ovunque e li compravano all’estero. Anzi, ci spingevano a farli perché costavamo poco in confronto agli americani. Ma gli effetti speciali erano gli stessi. Se doveva esplodere una macchina a Hollywood o a Roma la procedura era uguale. Solo che da noi si usavano macchine meno costose.
Come lo ha scritto?
Pensando di fare una biografia coi ricordi, anche se come spesso accade l’ho scritto rapidamente in due mesi ed ero stressato. Ora penso che potevo dire anche altre cose, ma si sa che non c’è niente di più falso di un’autobiografia. Sono contento perché non parlo solo di me ma della mia generazione e di un’intera epoca storica.
Che sentimenti ha verso la critica che le è stata contro?
Il mio cinema è stato spesso bistrattato dalla critica che voleva essere solo intellettuale. Io facevo parte dell’industria e il nostro mestiere era vendere. Eravamo deputati a finanziare con i nostri incassi i film di qualità che facevano emergere altri talenti. Pochi lo capivano.
Aver intitolato il libro con quella frase emblematica è sintomo di molta ironia da parte sua.
Un critico disse che davvero avevo molti vizi e poche virtù, io però ci ho messo un punto interrogativo, perché son convinto che molti all’epoca recensivano i miei film senza manco vederli. Persone come Tarantino ci hanno ridato valore. E soprattutto ci hanno detto che siamo stati un’ispirazione.
Ha fatto anche horror. Che tipo di atmosfera c’era su quei set?
A dispetto di molti miei colleghi, a me piaceva cimentarmi con quel genere, anche se ho amato molto le commedie. Alla fine sono stato sempre sincero: gli altri dicevano di voler fare i film che piacevano a loro, a me ha sempre interessato il pubblico.
Si è preso una rivincita?
Vorrei che fosse il cinema italiano a esserne fiero. Il cinema industriale è appartenuto alla generazione di imitazione di quello americano, tutti venivano ad acquistare i nostri polizieschi perché noi con la tecnologia di allora facevamo le cose con maggior audacia. Quando il gap tecnologico, per mancanza di volere politico, è diventato incolmabile con gli americani, direi a fine anni 80, abbiamo subito il decadimento. Loro hanno iniziato a usare il computer, il pubblico italiano si è iniziato a disaffezionare a temi, diciamo così, casarecci.
Dove ha girato maggiormente?
Roma, a Cinecittà e soprattutto agli stabilimenti Elios. Mi ricordo gli stuntmen, i manichini che cadevano, i materassi. Pensi che un villaggio western aveva i turni, ce lo dividevamo tra varie produzioni, chi al mattino e chi al pomeriggio. Lo stesso villaggio serviva a più film. C’era grande ingegno.
C’era molta sintonia con gli americani. E in qualche caso anche scambi di soggetti.
Loro venivano a Cinecittà perché girare qui costava meno. Poi hanno iniziato a comprare film, invece che prenderne uno ne prendevano cinque perché costavano poco. Il mio cinema di avventura aveva visto i prodromi nel cinema americano di 20 anni prima, in questo caso c’era ispirazione. La storia classica della moglie che andava a cercare il marito scomparso nella giungla. A volte il mio cinema è stato violento ma era anche commissionato in quel modo. Facendo un certo cinema bisognava fare effettacci utili per gli incassi.
Che pressioni c’erano?
Ci divertivamo ma c’erano delle imposizioni. Per il cinema comico assolutamente non dovevano mancare almeno 20 parolacce. Detto questo, nei miei film non credo ci sia mai stata nudità gratuita. Magari l’ho fatto nei gialli.
Che tipo di bellezza femminile andava per la maggiore?
Sono stato un compagno di lavoro di Edwige e ora è come una sorella per me, non ci siamo persi. Qui ho vinto una sfida: nei gialli andavano sempre le donne emaciate biondine, io prendendo lei ho voluto presentare un’esuberanza notturna. Non è detto che per i gialli vadano le magre. Mi sono reso conto che è stata una scelta perfetta, un’ironia solare che dava un tocco piccante senza essere volgare.
Oggi c’è più volgarità?
Provi a paragonare gli ultimi cinepanettoni, imbarazzanti, c’è una differenza di gusto notevole. Ci sono situazioni piccanti ma davvero si degrada. Tipo un attacco di diarrea in ascensore. Perché? Al massimo io facevo prendere un lassativo a un attore al posto della pillola per dormire.
I titoli però erano davvero da strappa-risate ancor prima di vedere i film.
Giovannona coscialunga è un’idea di mio fratello Luciano, produttore. Un film delizioso per niente volgare. All’inizio volevamo dargli un titolo metallurgico: Un grosso affare per un piccolo industriale. Se vede la trama abbiamo anticipato di decenni quella di Pretty Woman. Un imprenditore che si presenta con una finta moglie compiacente per arrivare a un appalto politico. Sempre la stessa storia.
Che rapporto aveva con suo fratello?
Amavo la sua genialità. Il motivo del suo grande successo era che lui pensava più al titolo che al contenuto. E infatti una delle ultime cose che ha battezzato è rimasta già storica, Song’e Napule dei Manetti Bros. Tutti i miei titoli sono stati inventati da lui: La moglie in vacanza, l’amante in città, il mitico I corpi non presentano tracce di violenza carnale.
Ma la censura allora com’era?
Al contrario di quanto pensano i nostalgici, l’Italia era bacchettona e c’era molta censura. Fuori dalle chiese c’erano i manifesti con i film consigliati e sconsigliati dalla chiesa. Chi andava a vedere alcuni film commetteva peccato. Infatti, ricordo fughe mitiche delle troupe appena si arrivava a Parigi, la scena classica era che fuggivano tutti all’edicola. Andavano a comprarsi Playboy che da noi era vietato.
E oggi?
Si è abbandonata la dimensione ipocrita peccaminosa determinata dal cattolicesimo e tutto il sesso è vissuto più naturalmente.
Anche se, sentendo le cronache dei soprusi che le donne dello spettacolo denunciano, forse alcune cose sono sfuggite un po’ di mano.
Il motto della mia generazione era: Al regista non si resista. Sicuramente il potere del regista è stato usato a volte in maniera errata. Però a tal propostivo voglio portare a esempio un’attrice, Danila Stalteri che mi ha ricordato su Facebook qualche tempo fa di come l’abbia aiutata in maniera spontanea. Lei aveva pubblicato una lettera dicendo che aveva bisogno di lavorare. E io l’avevo contattata dandole una chance. Lei è una che oggi crede ancora in questo mestiere.
Oggi nel cinema, chi ha il ruolo che avevate voi all’epoca?
Forse Checco Zalone, che fa dei numeri grossi e che prova a raccontare qualcosa. L’ultimo film aveva anche coraggiosamente inserito delle critiche al sistema italiano, a quell’idiozia di non prendersi mai responsabilità, nonostante una storia antica di millenni. Ecco, quello è un cinema popolare che dice la sua.
Cosa si augura per la settima arte?
Che si torni a porre enfasi sui ruoli. Il cinema con cui sono cresciuto aveva attori importanti ma la fortuna del film la faceva il personaggio. Poi c’era il carisma dell’attore che decretava il successo. Ma se non ci sono storie forti, chi ride oggi? Il comico o i grandi protagonisti come Sordi, Mastroianni, Gassman erano insuperabili perché istrionici a servizio della storia. Non il contrario.