“I am Banksy” è il nuovo cortometraggio dalla regista Samantha Casella dedicato all’artista Banksy, massimo esponente della street-art e simbolo di una generazione, la cui identità rimane ancora oggi misteriosa. Un film dal taglio documentaristico che attraverso sapienti ricostruzioni ripercorre le principali tappe dell’artista inglese. L’opera ha riscosso un successo enorme, ha vinto infatti nella categoria Miglior Cortometraggio Straniero al Los Angeles Independent Film Festival Award e ha trionfato nella categoria Best Mystery Short all’Olympus Film Festival, sempre a Los Angeles. Un film che ha letteralmente conquistato il pubblico americano, tanto che parteciperà alle selezioni per gli Oscar 2020. Una straordinaria occasione questa per parlare di cinema e arte con Samantha Casella.
Cosa ti ha spinto verso il cinema?
Da bambina vidi un dialogo di un film in cui un prete e una donna parlavano di Dio. In seguito avrei scoperto che si trattava di un film di Bergman, “Luci d’inverno”. Mi impressionò e penso fu la prima volta in cui mi posi la domanda sull’esistenza di Dio e su cosa fosse la morte. In un secondo momento rimasi abbagliata da “Taxi Driver” e mi conquistò un po’ tutta la filmografia di David Lynch. Mi ha sempre affascinato il lato oscuro che risiede nella mente e nel cuore delle persone, il mistero che si cela dietro agli eventi, quella sorta di “sguardo superiore” che sembra gravare su di noi. A spingermi verso il cinema è stato tutto questo, unito all’utopia di essere in grado, un giorno, di riuscire a filmare l’anima, così come riuscivano a farlo Bergman o Kieslowski così come ora fa Malick. Qualcosa che purtroppo non sarò mai in grado di fare.
Cosa ti spinge verso l’arte?
Ritengo che la forma vivente più vicina all’immortalità sia l’arte. La pittura in primo luogo può strappare e fissare sulla tela un momento rendendolo immobile, eterno. Quel momento avrebbe potuto essere qualsiasi altra cosa, ma fissato su tela diviene immutabile. A spingermi verso l’arte credo sia il senso di assoluto che impone e di impotenza che trasmette.

Nel tuo film dedicato a Banksy in realtà ci parli dell’ipotesi Banksy, era il modo migliore per parlarci di lui?
Banksy per primo ha voluto costruire un indovinello intorno alla propria figura. Non intendo assolutamente mancare di rispetto alle sue opere, ma credo sia sotto agli occhi di tutti: l’enigma Banksy sovrasta il suo lavoro. Di conseguenza, non so se sia il modo migliore, dal mio punto di vista era l’unico modo. In fondo Banksy non è egli stesso un piccolo noir?
Complotto oppure no?
Complotto non so, non credo, operazione commerciale studiata a tavolino, potrebbe essere, i segnali non mancano. Ma al di là di ciò, Banksy funziona, e quando funzioni hai vinto tu. Almeno a breve termine.
Qual’è la tua opinione su Bansky e più in generale sull’arte concettuale?
Parto dal presupposto che bisogna avere rispetto verso le persone che nella vita sono riuscite a raggiungere un grande numero di consensi. Certo, “il popolo”, le folle, sono forse più propense a credere a tutto se il concetto è buttato furbescamente, ma io voglio credere che sia sempre una mancanza, un bisogno a spingere gli esseri umani verso una certa direzione. Che quel bisogno sia concettualmente, moralmente o artisticamente valido è un altro discorso. Amo gli artisti più disparati: da Caravaggio, Modigliani, Hopper, Schiele, Goya a Picasso, Bockin, Dalì e non solo, perché la lista è lunga… L’arte concettuale non sono ancora riuscita a isolarla, a contestualizzarla all’interno della mia vita: in un certo senso il fatto che le idee espresse siano più rilevanti dell’aspetto estetico mi lascia perplessa perché spesso si va a cercare una risposta partendo dalla domanda sbagliata.
Quanto conta per te l’ironia?
Pur essendo una persona molto concreta e coerente, trovo che la vita sia un paradosso che va a braccetto con l’ironia.
Vanità, decisamente il mio peccato preferito. E’ una citazione cinematografica presente anche nel tuo film, è anche il tuo peccato preferito?
Spesso le persone mi dicono che stimolo la loro vanità. Non mi interrogo molto sulle mie capacità, la sola cosa che penso applicata a me è di seguire un mio percorso, professionale e privato, con disciplina e sempre con passione. Riguardo alle persone, a me piace scoprirne i lati belli; spesso si dice che i difetti sono gli aspetti più nascosti invece penso che siano i pregi ad esserlo, l’essenza. Ecco, a me piace entrare in contatto con l’essenza delle persone, poi se questo crea compiacimento non credo sia negativo, va solo indirizzato bene.
Come hai lavorato sulla credibilità dei personaggi?
Sinceramente alla credibilità ho sempre preferito l’ambiguità. Ad ogni modo, ovvio, nel cinema i personaggi devono essere connotati. La figura del giornalista è stata scritta su misura per Marco Iannitello. Ho pensato fosse il volto giusto per il ruolo del giornalista, e che possedesse il talento per esprimere il misto di arrivismo, ossessione, disperazione, coinvolgimento emotivo che separa un essere umano da un obiettivo.
Riguardo agli altri personaggi ho pensato che un ex componente della banda di Banksy, un professore d’arte, un complice improvvisato e un gallerista fossero “tappe” credibili per seguire la ricerca del protagonista.
Vi è infine un ruolo estremamente surreale, privo di background, una sorta di Caronte che ha il compito di (non)spiegare chi sia Banksy.
Ci parli del cast?
Protagonista assoluto è Marco Iannitello. Ci siamo conosciuti in treno, quasi dodici anni fa, senza sapere nulla l’uno dell’altro. Siamo sempre rimasti in contatto, seppure “I Am Banksy” è il primo progetto in cui abbiamo lavorato insieme. Il corto è sulle sue spalle e le sue sono spalle forti. Non mi era mai capitato di capirmi tanto al volo con un attore e il merito è tutto suo perché sembra capire tutto in anticipo, senza aver bisogno di chissà quali spiegazioni. Marco è un professionista straordinario ed è nostra intenzione far durare questo sodalizio il più a lungo possibile. Tra l’altro, Marco è stato basilare per la scelta del cast. Mirko Ciorciari nel ruolo del componente della banda, Diego Verdegiglio nella parte del professore, Roberto Rizzoni in quella del gallerista e Caterina Silva per il ruolo di Anubi, sono stati tutti suggeriti da Marco Iannitello. E sono stati tutti impeccabili, straordinari. D’altronde Ciorciari e Rizzoni sono ottimi attori di teatro, molto profondi ed espressivi, Verdegiglio ha talmente tanto mestiere che credo la sua giornata di lavoro sia stata come bere un bicchier d’acqua, mentre Caterina Silva penso sia stata a dir poco straordinaria; sapevo era brava, ma a me ha veramente impressionata. Quanto al ruolo del compare, lo interpreta Matteo Fiori, il solo attore con cui avevo già collaborato e che apprezzo molto, ha talento sia umano che recitativo. L’ho contattato pochi giorni prima delle riprese perché quel ruolo era stato assegnato a Gianni Andrei, altro attore basilare durante il mio percorso ma che ha dovuto rinunciare per motivi ben più importanti di un banale cortometraggio. Ma rimedieremo in futuro.
E dopo questo lavoro?
Ho iniziato le riprese di un altro cortometraggio impegnativo, diviso in tre capitoli: “Al Dio sconosciuto”. Il primo capitolo si basa su testi del poeta russo Sergey Esenin, il secondo presenta un brano di un romanzo dell’autore americano John Steinbeck ed il terzo evolve tramite le poesie, in francese, di Arthur Rimbaud. Sono tutti in lingua originale, quindi non è affatto semplice. In autunno 2020 vorrei poi girare il mio primo film: credo ci siano ottime basi perché il progetto vada in porto, ma la strada è ancora lunga. In parallelo vorrei scrivere una favola con protagonisti animali e un progetto con una serie di frasi simboliche realizzate con i neon ed ambientate in luoghi contestualizzati ai messaggi.