Col nome di Rudi Vittori è stato un alpinista che a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 ha stimolato il dibattito sull’evoluzione dell’Alpinismo e dell’Arrampicata sportiva nel nostro Paese. Oggi Rodolfo Vittori, gloria dello sport alpino e orgoglio del Friuli-Venezia Giulia, è un coach psicologo, consulente di direzione. Una laurea magistrale in Psicologia Clinica, una in Relazioni Pubbliche e una in Comunicazione gli conferiscono uno sguardo che si muove dallo sport al benessere totale. Nella sua attività di consulenza, .sul lavoro o nelle prestazioni singole con i privati, privilegia il benessere con approccio integrato. “Non si può guardare soltanto ad un problema, ma a tutto l’insieme, fisico e psicologico. Uno degli errori che si fa oggi in campo medico è di guardare al singolo sintomo: hai mal di testa prendi un analgesico, ti fa male la schiena prendi un antiinfiammatorio, ma i singoli sintomi fanno parte di un disagio generale più complesso. Sono soltanto i segnali che il nostro corpo ci da per farci capire che dobbiamo cambiare abitudini”.
Rodolfo che percorso hai svolto dall’Alpinismo a oggi?
Nella mia ormai lunghissima vita ho capito che prima di tutto, ciò che conta, sono le relazioni. L’uomo è un animale sociale e per vivere in maniera serena ha la necessità di costruire delle valide relazioni e per questo mi sono specializzato in mental coaching, e recentemente mi sono avvicinato alle tecniche di mindfulness, per poter essere vicino alle persone nelle loro scelte e per aiutarle a vivere la vita a pieno.
Cosa insegni a chi ti chiede aiuto?
L’obiettivo della vita è quello di ricercare la felicità, di stare bene con noi stessi e con gli altri. Per riuscirci dobbiamo provare soddisfazione in ciò che stiamo facendo, nel lavoro, nello studio, nella politica, nello sport, nelle relazioni famigliari e sociali e in tutte le altre stanze della vita. Il percorso per raggiungerlo può essere sempre intrapreso.
Su cosa spingi maggiormente quando parli di “cambiamento”?
Le principali aree nelle quali opero sono la crescita personale, la modifica delle abitudini, il sostegno nei cambiamenti di vita, le difficoltà relazionali e la gestione dei conflitti. Sono esperto in gestione dello stress e delle abitudini alimentari.
Parliamo dei due anni, ormai, che stiamo vivendo di emergenza. Ci sarebbe un trattato da analizzare, proviamo a sintetizzare quali sono le necessità maggiori che si stanno manifestanzo a livello sociale e personale.
La pandemia che stiamo vivendo, sta modificando radicalmente il modello organizzativo delle aziende ed è molto probabile che i cambiamenti che ci sono stati in questo periodo, saranno destinati a rimanere anche in futuro. Lo smartworking molto spesso viene descritto come un sistema di organizzazione che riesce a coniugare al meglio la sfera lavorativa con quella privata, con il vantaggio evidente di una maggiore vicinanza alla famiglia e il risparmio sugli spostamenti casa lavoro. Purtroppo, però, contrariamente a quanto potremmo aspettarci, lavorare a distanza porta livelli di stress più elevati che recarsi a lavorare in ufficio.
Perché succede questa cosa che sembra impossibile?
Le problematiche sono legate a diversi fattori, il primo dei quali, paradossalmente, è l’assenza di un orario di lavoro. Se si pensa che il lavoro a distanza presenti il vantaggio di potersi ritagliare un proprio spazio temporale all’interno della giornata, nella realtà, lo smartworker non stacca mai. Le e-mail vengono lette a tutte le ore e in qualsiasi giornata. Ci sono videoconferenze in ogni momento della giornata e il weekend non esiste più come momento di distacco, perché non si riesce a distinguerlo dalle altre giornate lavorative.
Come si lavora oggi e come si lavorerà domani?
Oggi, in un team virtuale, manca completamente la parte non verbale della comunicazione e le relazioni possono incrinarsi. Le e-mail possono essere interpretate erroneamente come maleducate o troppo dirette e, senza un linguaggio del corpo visibile, è difficile comunicare veri intendimenti. La sfida sarà sicuramente quella di riuscire a mantenere un equilibrio dinamico e soddisfacente del proprio tempo, evitando quel costante antagonismo tra i diversi ambiti della vita, principalmente tra il lavoro e la famiglia. Di riuscire a godere, in modo consapevole, di tutti gli aspetti fondamentali dell’esistenza.
Tu come sei arrivato nella situazione attuale?
La mia svolta l’ho già avuta quando a 48 anni mi son dovuto ritirare dal mio sport per due menischi rotti. Quindi nel 2003 mi fu detto: faccia qualcosa di più consono alla sua età. Ma non ho mollato. Dopo le operazioni, che mi hanno causato problemi, sono stato in pausa di 10 anni dallo sport, e mi è servito. Perché poi nel 2013, quando tutti mi dicevano che alla mia età era normale aver preso dei chili di troppo e una glicemia alta, ho ripreso con lo sport.
Hai ripreso ad andare in montagna?
No, non mi avrebbe fatto bene rivedermi a fare cose che non potevo riuscire più a fare e così mi sono messo a fare Triathlon e ho sfidato me stesso. Certo ora a 65 anni è una sfida anche contro l’invecchiamento e il cambiamento ormonale, una sfida su come mantenere muscolatura ma se si hanno motivazioni si combatte anche con la convinzione che è normale avere diabete di tipo 2 alla mia età.
Oggi ti occupi sostanzialmente di persone. Viviamo in un periodo dove le persone sono davvero le risorse?
Nasco in azienda, ho fatto un percorso dirigenziale fino al 2000 ed ero convinto che la tecnologia fosse tutto l’informatizzazione e la robotica regnavano sovrane. Fin dal 1996 ho fatto consulenza e ho messo in piedi una società che illustrava l’organizzazione delle persone e come vanno implementati i sistemi di gestione. Mi sono reso conto che l’asset principale di un’azienda sono le persone, il benessere e le condizoni di lavoro che loro vivono. E siamo arrivati a oggi che si parla di work-life balance. Quindi quando mi chiamano in azienda dico: ragionate per obiettivi e dimenticatevi gli orari, perché il rischio burn-out è dietro l’angolo.
Dicci qualcosa su cui è necessario lavorare a livello personale.
Separare anche fisicamente gli spazi lavoro-famiglia. Lavorare sull’incapacità di rilassarci, pensiamo continuamente alle scadenze che abbiamo. Le grandi multinazionali mondiali da tempo nei loro uffici hanno strutture per rilassarsi e palestre, che non creavano distrazione ai dipendenti, anzi. Sul fronte produttivo, il problema in Italia è che abbiamo il 97% di micro-imprese e il rapporto tra la proprietà, dirigenza e lavoratore è spesso complicato.
Gli imprenditori che dovrebbero fare?
In certe aziende più sensibili stanno facendo controlli su stress correlato al lavoro. Abbiamo visto andando a fondo in questo periodo chi non ha rapporti coi colleghi, chi è incentivato a non andare in azienda, rimpiange la pausa alla macchinetta del caffè. Aumenta la produttività anche ritrovarsi col collega in quella pausa. Finché non si potrà rifare, concentriamoci sulle riunioni a distanza e la lorro efficacia. Spesso sono solo fonte di stress perché si pensa a quello che viene dopo. Cerchiamo di risolvere i problemi mentre le facciamo.
Sfatiamo il mito che gli italiani sono scansafatiche?
Altroché. Gli italiani lavorano di più degli altri, ma peggio. Ho fatto praticantato tecnico in Germania negli anni Ottanta e non ho mai ritrovato un’organizzazione simile nella mia vita. Alle tre e mezza del pomeriggio erano tutti liberi. L’extra time è vissuto come cosa negativa.
Le difficoltà ancora presenti nella nostra cultura aziendale?
In Italia chi assume privilegia la fidelizzazione a discapito delle competenze. Noi quando ci licenziamo veniamo visti come traditori. Molti vengono assunti all’estero proprio perché hanno avuto tante esperienze lavorative mentre l’imprenditore italiano è preoccupato di chi conosce più di quello che sa lui. Il passaggio generazionale è anche visto come ineluttabile nelle aziende italiane,, è una predestinazione con il figlio maschio che fa il tecnico, e le donne creative nel marketing. Io dico: ma magari sono portate per altro, perché non seguire le loro inclinazioni?
Un tuo suggerimento definitivo a chi fa impresa nel nostro Paese?
Dobbiamo tutti credere nelle risorse che sono le persone. E impegnarci affinché riescano a esprimersi.
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