Il pomeriggio freddo di gennaio non lo spaventa. Philippe Daverio non rinuncia alla pausa caffé e sigaro prima della sua ennesima intervista nell’affascinante studio in costante penombra in zona corso Italia a Milano. Usciamo fuori, rientriamo dopo il “riscaldamento” verbale. Sarà una chiacchierata affiatata? Il professore predispone tutto, poi c’è il suo eloquio che fa il resto. In ogni parola, ironia spiazzante e collegamenti ipertestuali da far invidia a Wikipedia.
Si parte, riascoltando la registrazione a tre anni di distanza, ora che non c’è più, la lectio è ancora più preziosa.
Professore, i libri sono il nostro arricchimento. Oggi la lettura è una questione popolare?
Nella Francia che ha fatto la rivoluzione, la parola libreria associata all’aggettivo popolare non esiste. Sul metrò di Parigi c’è gente che legge. La questione si pone per l’Italia. La verità è profonda e va cercata nella riforma di San Carlo che diceva: il prete fa il prete e l’importante è che la gente non legga. Altrimenti sarebbero diventati tutti come quelli che seguivano Martin Lutero.
Parliamo del 1500…
Certo, l’idea era: tutti i tedeschi che hanno imparato a leggere se ne sono andati. Voi italiani non leggete, in cambio vi diamo la musica, i quadri, l’architettura, la pompa magna. Per me la televisione italiana è nata col Concilio di Trento dopo il 1563. Da lì è stata plasmata l’Italia che è venuta.
Come si risolleva culturalmente un Paese?
Beh, gli italiani non hanno mai più letto. La lettura è un privilegio di alcune classi sociali, ma anche nelle case borghesi, c’è poca lettura. Per gli italiani il libro è necessario, lo si guarda con finezza ma non ci si avvicina per forza. L’Italia era comunque più lettrice prima dell’arrivo dell’epoca berlusconiana. Berlusconi ha avuto il merito di aver reso l’Italia coesa fuori dal libro.
C’è da preoccuparsi secondo lei?
L’Italia tende alla scarsa alfabetizzazione, con gli alfabeti di ritorno più alti, assieme a Portogallo e Grecia. Avevamo formato delle comunità di comunicazione esterna a libro che non abbiamo più. Penso alla sezione del PCI, la bocciofila dei socialisti, l’oratorio, il bar dove ci si aggregava nella conversazione come alternativa al libro. Il capofamiglia che porta e legge il libro è della cultura protestante.
Si ricorda episodi che lasciavano ben sperare?
C’è stato un momento post-sessantottino di apparente apertura. C’è stato un sogno di evoluzione dell’Italia, ma fermato e in fretta. Qui in città, la Milano da leggere è stata sostituita dalla Milano da bere.
C’è stata anche una frattura sociale sull’oggetto-libro, vero?
Beh, nella lotta per il diritto allo studio è entrata anche la questione sul costo dei libri, che erano più belli ma molto cari. Nel 1967 ero alla Bocconi pagato dalla famiglia e avevo 30mila lire al mese di ‘argent de poche’, la paghetta. Pensi che il libro di economia ne costava 19mila. La scelta tra la pizza e il volume era abbastanza favorevole alla pizza.
Eppure gli italiani adorano l’editoria!
Certo, il numero di case editrici in Italia è incredibilmente superiore a Francia e Germania messe assieme, ma vendono poco perché ormai l’impostazione culturale è fatta.
Chi erano i librai?
Erano gli Amazon di oggi. Posso trovare quello che voglio e chiedere consiglio. Ma detto questo, le grandi catene da noi hanno saputo adeguarsi ai tempi. Bisogna custodire invece i librai indipendenti il più possibile.
Che valore attribuisce alla lettura?
Prenda ‘Guerra e Pace’: chi lo ha letto è simile, cioè io potrei essere simile a Briatore se lui l’avesse letto. Il libro è emancipazione se è accessibile. Penso al Livre de Poche in Francia che col suo formato è entrato ovunque.
Che valore attribuisce alla politica?
Abbiamo vissuto la mutazione di un sistema aggregativo senza che la parte politica più consapevole abbia avuto voglia di dare un indirizzo. Esistono più i dibattiti? Forse in tv. Se il Paese è in crisi c’è una ragione, è ora di pensarci. E riconoscere che la deriva è iniziata per distrazione.
Che valore invece riveste l’aggregazione?
Il comitato Vietnam a Milano è stato nel 1966 la prima voglia di frequentazione che ho avuto quando mi sono iscritto all’università. Ero più giovane degli altri, si discuteva di letture. Ci mettavamo in otto, otto matti, e analizzavamo le linee del Leninismo apparentemente scritte da Stalin. Ma c’era una pulsione trasversale che indicava un gesto inserito nell’onda della storia. Credo che non ci sia nessun gruppo di ventenni oggi che si riunisca per stessi fini. Ricordo il rapporto sulla liberazione sessuale, le accuse che muovavamo. Esisteva l’obbligo etico alla lettura, e oggi quello è scomparso. Altro fenomeno particolare dalla fine degli anni Ottanta in Italia è che da noi non ci sono stati movimenti giovanili. Non si lotta, non ci si incontra, è tutto sostituito dall’happy hour. E quel rito non prevede di certo il libro.
Che ruolo ha avuto la Chiesa nella crescita ed evoluzione culturale recente?
La prima esplosione del movimento studentesco a Milano arriva dall’Università Cattolica, ultimi noi bocconiani perché eravamo ragionieri. La cultura cattolica in area lombarda, più che altrove, ha sempre vissuto un’incredibile e simpatica duplicità. Una parte legata al genere di potere, una parte estremamente popolare che è finita nell’ibrido di Comunione e Liberazione, una deriva credo non proprio geniale.
Si può essere cattolici con una libertà laica di pensiero secondo lei?
Oggi si può far tutto. La struttura cattolica storica è abbastanza sbrandellata, stiamo diventando protestanti senza saperlo. Il rapporto di fede sta diventando sempre più personale. Ci ha provato con grande magistero il cardinale Martini, riformando alla radice la capacità di dialogo della chiesa ambrosiana. Il livello di capacità di predica di un parroco lombardo ha avuto una crescita intellettuale potentissima rispetto ai Don Abbondio di una volta.
Al centro di questa sua analisi c’è Milano. Come le sembra questa città ultimamente?
Una città che ha sofferto di disgregazione, ha preso dei colpi drammatici. C’è stata la Milano da bere del Bettino, dopo poi quella dell’illusione del culto berlusconiano. C’è stata poi una ripresa della sinistra, che ha poco di sinistra devo dire. Adesso non vedo un’idea di fondo forte. Una città dove alcune cose vanno per automatismi, funzionano da sole. Ma il rapporto tra elite e società si è sciolto, non solo qui, credo in tutta Europa. L’unica cosa che possiamo sperare è che la fisiologia sociale esprima delle forze da accogliere.
Nella foto d’apertura: l’ultima immagine che abbiamo scattato al prof. Daverio al Museo del Teatro alla Scala di Milano, novembre 2019.