Incontrare Paolo Landi è come fare una cavalcata negli ultimi decenni al centro della comunicazione d’impresa. Uomo artefice delle campagne comunicative dei brand più blasonati d’Italia (da Benetton a Mondadori) è oggi apprezzato consulente e autore di libri sempre incentrati sui fenomeni che caratterizzano le epoche: Lo snobismo di massa (1991), Il cinismo di massa(1994), Manuale per l’allevamento del piccolo consumatore (2000), Volevo dirti che è lei che guarda te. La televisione spiegata a un bambino (2006), Impigliati nella Rete (2008), La pubblicità non è una cosa da bambini (2009).
Da domani, per La Nave di Teseo, è il turno di un’analisi attenta e innovativa sui social media. “Instagram al tramonto” arriva nel momento di massimo splendore dell’utilizzo della app di condivisione di foto. Landi dice: “Quando postiamo una foto su Instagram sembriamo preoccupati di rivelarne insieme la verità e la bellezza. Ci interessa dire: ‘Ecco, questo tramonto è meraviglioso, lo vedete? Io lo sto guardando realmente, ora, infatti lo fotografo, per dimostrarvi che è vero, che io sono qui e che lo sto guardando’. All’imbrunire Instagram ha un’impennata di “like”: perché milioni di persone, in tutto il mondo, sentono il bisogno di condividere l’immagine del sole che cala? Consultiamo Instagram in modo talmente compulsivo ormai da trascurare di interrogarci sul perché lo facciamo”.
Con 16 screenshot di Oliviero Toscani, il libro ha puntigliosità pedagogica, ironia inevitabile e prudente indulgenza verso la seduzione esercitata dai social media. Che coinvolgono tutti, dice Paolo Landi, che da advisor di marketing e comunicazione per grandi aziende, sa benissimo di essere autore e vittima di un gioco gigantesco.
Lei è un communication advisor: cosa fa e in che cosa consiste il suo farsi ascoltare dalle aziende?
Per farsi ascoltare bisogna avere noi stessi capacità di ascolto dei bisogni delle imprese, oltre a competenza, credibilità, autorevolezza.
Il libro arriva probabilmente al picco di popolarità del social network di cui predice la fine. Corretto?
No, Instagram non sta tramontando, anzi: al tramonto ha un picco di “like” perché tutti, in tutto il mondo, fotografano il sole che cala. Il mio libro si domanda perché. Certo, la tecnolgia ci ha abituati a una rapida obsolescenza dei tools che ci propone, è probabile quindi che anche Instagram cambierà, oppure sarà sostituito da qualcos’altro. Ho scelto un titolo ambiguo proprio per far riflettere su questo punto.
Che tipo di impatto ha avuto Facebook e che tipo di impatto ha avuto Instagram sulle nostre vite?
I social network non hanno cambiato le nostre vite, che restano le stesse nonostante le nostre frequentazioni di Facebook e Instagram. Hanno però cambiato i nostri comportamenti: una parte sempre più rilevante del nostro tempo libero lo passiamo sui social e spesso non ce ne rendiamo nemmeno conto.
La più grande differenza nella comunicazione istituzionale al tempo dei social media?
L’immediatezza e la capacità di raggiungere un vasto pubblico.
Per pubblicizzare un prodotto o lanciare una carriera: meglio informazione targettizzata o informazione alle masse?
Si va verso un marketing one-to-one, le informazioni di cui dispongono i social lo consentono. Sarà capitato a tutti, come è capitato a me, di parlare a cena di qualcosa e di trovare sullo smartphone o nelle mail una offerta relativa a quel qualcosa di cui si parlava. Un fenomeno inquietante, per certi versi.
Quando ha dovuto fare fatica a convincere qualche imprenditore sulla bontà dell’innovazione digitale?
Con i più accorti si fa più fatica perché stiamo vivendo un’epoca pionieristica e vogliono sapere con precisione dove mettono i soldi per comunicare. Purtroppo le proposte di investimenti in comunicazione digitale sono prodighe di numeri ma poco convincenti sugli effetti di ritorno reali.
C’è stata resistenza in passato per innovazioni di altro tipo in campo di marketing?
Quando l’innovazione è vera innovazione si incontrano sempre resistenze perché il nuovo spaventa. Le aziende preferiscono approcci tradizionali, salvo poi lamentarsi che non danno risultati. La comunicazione Benetton negli anni 90 e fino al 2000 incontrò molte resistenze perché era autenticamente innovativa, ma la potenza del brand, che dura ancora oggi, la si costruì in quegli anni con le campagne controverse di Oliviero Toscani.
Dove crede si dirigerà la comunicazione di impresa nei prossimi anni?
Nell’immediato futuro la pubblicità si orienterà verso una commistione di offline e online. Poi l’online prenderà probabilmente il sopravvento, perfino le tradizionali affissioni stradali cominciano a usare supporti digitali, facile che da lì atterrino poi sui nostri smartphone. La comunicazione corporate lavora già ampiamente sull’online, mette i bilanci in Rete, usa i video per i Company Profile e li posta su Linkedin.
Fenomeni come Chiara Ferragni arriveranno ancora?
Ce ne saranno di nuovi. La forza di Chiara Ferragni è stata di aver capito per prima le potenzialità dei social. E, sempre per prima, sta capendo che è il momento di smettere di essere una “influencer”, infatti è ormai una imprenditrice digitale ma anche molto tradizionale, produce scarpe, make up.
La “fear of missing out” è una patologia enfatizzata o reale?
Tra le persone intelligenti non attacca. Quelle meno attrezzate e piu conformiste possono diventare vittime di questa come di molte altre paure.
Ha fatto discutere in America il caso di un’azienda che ha commercializzato magliette in partnership con una influencer molto seguita, che poi non hanno venduto. Quando ci si accorge che i followers non significano necessariamente business, che si fa? E questo è un campanello d’allarme?
Soltanto degli sprovveduti possono credere che a un milione di like possa corrispondere la vendita di un milione di magliette. I social, gli influencer sono modalità di comunicazione da cui oggi non si può prescindere ma devono essere utilizzati con accortezza e, ripeto, in questo periodo pionieristico, non lasciare solo sulle loro fragili spalle il peso di una comunicazione di impresa.
I media tradizionali, radio, tv e giornali cosa hanno fatto in questi anni di innovativo?
Praticamente niente purtroppo. Strangolati dalla crisi sono entrati in un circolo vizioso: perdono copie e quindi perdono qualità e siccome perdono qualità perdono copie. A nessuno è venuto ancora in mente, per esempio, di aumentare il prezzo dando però la stessa qualità che danno il New York Times, che costa, mi pare, 6 dollari o il Washington Post. Se lo facessero io credo che un pubblico ci sarebbe. Ma dovrebbero proporre contenuti originali e impeccabili, come fanno il New York Times e il Washington Post. La Rai solo in questi giorni ha lanciato Rayplay, avrebbe dovuto farlo almeno da quando è arrivato Netflix che ci ha abituati a vedere la tv sul computer o sugli smartphone.
Arriverà una seconda vita per l’informazione su carta stampata? Vede dei segnali in questo senso?
In Italia vedo pochi segnali. Poi vado in Francia, in Germania o negli Stati Uniti e constato che là c’è ancora una stampa vitale, seppure in crisi anch’essa, con belle grafiche, foto non scaricate da Internet, una ricerca della qualità che ancora la fa vivere. E spero che accada anche in Italia, io credo che un vasto pubblico ci sarebbe.
Perché secondo lei i media online, almeno in Italia, soffrono per questo sentimento di inferiorità rispetto al prestigio della carta stampata?
Tutto quello che appare su uno schermo è, per sua natura, aleatorio. Se provo a ricercare una notizia letta online è quasi certo che ne troverò cento che parlano di quell’argomento ma proprio quella che cercavo è difficilissima da ritrovare nella marmellata di contenuti (spesso tutti uguali) che l’informazione online ci propone. Per questo i CEO delle aziende vogliono ancora che la loro intervista esca su L’Economia del Corriere della Sera o su Affari & Finanza di Repubblica o sul Sole 24 ore, cartacei ovviamente.
Foto di Paolo Landi: Maki Galimberti