Parlare con Paolo Agrati di poesia, ma non solo, è facilissimo. Scrivere di poesia dopo aver parlato con Paolo Agrati è un po’ più complicato.
Paolo Agrati è un poeta. Paolo Agrati è uno che ha girato mezzo mondo, per l’altra metà c’è ancora tempo anche se sospetto che di mondo da girare in realtà gliene sia rimasto un quarto. Forse. Davanti alla strana deriva che ha preso la poesia contemporanea, Paolo Agrati, assieme ad altri pochissimi, è stato in grado di ritrovare una rotta che sembrava perduta, se non per sempre, per chissà quanto tempo ancora, e questo mi fa prendere in prestito il titolo del suo secondo libro di poesie, “Nessuno ripara la rotta”, (in)consapevole forse di averla proprio lui riparata la rotta con il suo spettacolo poetico che da anni porta avanti in giro per l’Italia e non solo.

Ma non voglio prendere in prestito solo il titolo del libro di Agrati perché c’è molto di più naturalmente, c’è una rotta che non si può riparare, nessuno ripara una rottura, un’odissea, nessuno ritorna a casa; sono costruzioni di un proprio percorso che ci abituano a pensare al fallimento senza magari riconoscerlo come tale e c’è una distanza, ed è proprio questo ciò che si potrebbe definire un libro sulla distanza che ci definisce.
Eppure Paolo Agrati pur dicendosi “sono sempre un po’ in giro” ama tantissimo la sua Brianza, la ritiene un posto tranquillo, non legato alla creazione ma alla casa, un posto sicuro. Al contrario adora tantissimo creare mentre viaggia, in treno soprattutto, scrive e non sa bene il perché ma è così.
È un luogo dove fare progetti e creare mentre tutto scorre dal finestrino, è l’embrione di qualcosa che lo porta a pensare che non c’è una regola per scrivere, un luogo dove si fanno progetti.
Si fanno progetti, come lo Slambus?
(ride) Sì anche, lo Slambus è un bus a nove posti che sta cercando sponsor per portare in giro un manipolo di poeti in tutte le piazze possibili, per portare la poesia al pubblico, che la cerca, che la vuole. Poi il mio impegno, chiamiamolo così, non è solo scrivere ma è anche proporre, non solo poesie ma anche ottimi scrittori che magari mancano un po’ nel proporre, allora cerco io una mediazione, sorrido perché sono un pessimo lettore convinto che le proposte vengano da buoni lettori.
Ecco, la tua non è solo una poesia che rimane in un libro…
No, scrivo poesie e le propongo dal vivo, faccio proprio uno spettacolo. Io costruisco un libro come una poesia, il libro vive in una certa maniera e così lo spettacolo e anche l’interazione musicale che attenzione, non è un accompagnamento in tema. Una poesia esige una partitura, ogni strumento è adattato a una poesia, una sottolineatura con pianoforte è studiata per una poesia così come a un’altra si addice di più una chitarra. Tutto ciò è ben fuso nel mio quarto libro “Partitura per un addio” dove affronto il tema della morte attraverso storie di vita nel loro ultimo atto.

Mi sembri quasi un artista concettuale della poesia. Ti ritrovi in questo?
La mia poesia cerco di condividerla, un artista è tale se comprende il proprio tempo. Ottengo dei risultati. Attraverso l’accessibilità, che magari non è popolare per certe cose, posso operare una scelta di campo: la musica pop è accessibile, la musica dark meno ma all’interno di ogni sottocampo posso scegliere qualcosa di accessibile o meno, opero una scelta. Ai miei spettacoli vengono tante persone che fanno poesia con me nel medesimo momento, è una condivisione fantastica, tanto che io poi vado a dormire contentissimo. Per rimanere in ambito concettuale la poesia è anche e soprattutto parola, è un andare oltre, il mio è un lavoro sonoro che ha un tempo teatrale nell’enunciazione della poesia. Un atto orale che non deve essere solo tale ma deve essere anche privato, te con te, potremmo dire, insomma, stiamo lavorando in questo ambito. L’unica cosa deviante è la spocchia del poeta. (sorride)
Tu partecipi anche al Poetrislam…
Sì. Prendere il poeta e metterlo in mano al pubblico. Rimettere nelle mani di chiunque la poesia. Partecipo per popolarità, per condividere la poesia e per umiltà, per farmi votare da uno che non ha gli “strumenti” perché la poesia non ha mai una sola lettura. Chiunque può salire su un palco e dire qualcosa e per la sua dimensione popolare ogni distanza ha bisogno di un suo mezzo. Barcellona, Colombia, Nicaragua, qui ho partecipato a poetrislam; poesia da strada e oggi posso dire che le due cose possono funzionare senza mortificare il poeta. Al poetrislam sto molto attento, partecipo con coscienza cercando di proporre quello che c’è, corteggiando anche il pubblico e con ironia ho vinto proprio con i suicidi di “Partitura per un addio”.
Se dico Spleen Orchestra?
È il mio gruppo col quale mi cimento con le colonne sonore tratte dai film di Tim Burton. Era un’attività partita da zero e adesso abbiamo un pubblico notevole, circa tremila persona a concerto. Si tratta appunto di un concerto con parti narrate, noi siamo otto elementi più un costumista e giriamo tutta l’Italia, è piacevole ma mi è scappata un po’ di mano (sorride). È uno spettacolo tipo Rocky Horror nel quale io sono un narratore che lega le colonne sonore dei film supportate anche da immagini proiettate e poi tanta musica. Siamo riusciti a fare tutto comunque con grande rispetto per i greek di Burton. Noi di solito stiamo in mezzo al pubblico, tutti insieme.
Per concludere?
Per concludere sono molto grato di quello che riesco a fare e finché dura sarò felicissimo.
Paolo Agrati ha scritto quattro libri di poesie: Quando l’estate crepa, Nessuno ripara la rotta, Amore e psycho, Partiture per un addio.
Foto d’apertura: Alberto Brevi.