Parte del ruolo affascinante che ricopre per The Way Magazine, Enzo Latronico la deve anche alla sua profonda conoscenza del mondo cinematografico e letterario. L’autore che firma articoli di costume e approfondimenti per questo giornale, ha lanciato da poco un nuovo libro, “Gli attori mangiano per finta” (ed. Le Piccole Pagine) dove dimostra che il gesto del mangiare, come evidenziato dal grande critico Roberto Tanzi, che firma la prefazione – “nel cinema assume significati profondi che non si esauriscono nella semplice funzione dello sfamarsi o della divertita e divertente convivialità.”
Latronico ci porta in una carrellata ricca e colorata di episodi culinari del cinema italiano di tutti i tempi, passando dai maccheroni di Alberto Sordi di Un americano a Roma, ai commensali de La grande abbuffata, fino alla frittata di Fantozzi. Lo abbiamo intervistato per approfondire il tema.
Come viene rappresentato il cibo nelle diverse epoche cinematografiche? Si tratta sempre di un elemento degno di interesse?
In base all’epoca e al genere cinematografico il cibo assume un significato diverso, diciamo che per quanto riguarda il cinema italiano in generale, il cibo, spesso suo malgrado, diventa addirittura un protagonista. È quanto ho cercato di delineare nel mio libro: sono infatti partito dal 1954, con Miseria e nobiltà, per concludere, ma senza concludere, con La grande bellezza del 2013. Il cibo nel cinema è stato guardato e raccontato quasi sempre con una specie di sacralità religiosa. Se negli anni 50 a fatica si stava uscendo da una grave crisi dovuta alla guerra, dopo il Neorealismo, la nostra Commedia comincia a prenderci e prendersi meno sul serio raccontando la fame celiando e ridendo ma sempre lasciando l’amaro in bocca, un segno distintivo graffiante tipico della commedia anni 60 e 70, il periodo più glorioso del nostro cinema; negli successivi invece il cibo assume tutt’altro significato, non sottolinea più la fame ma l’opulenza e l’ostentazione, spesso lo spreco, ed è sempre un elemento interessantissimo. Oggi potrebbe addirittura diventare, come si può vedere in un film come La grande bellezza, un elemento disturbante e di satira.
Come viene rappresentato il cibo in Italia? I momenti di convivialità del nostro paese sembrano sempre ruotare attorno alle tavole imbandite.
È vero, perché noi siamo così. Il cibo viene sempre rappresentato come un protagonista d’eccezione, potremmo quasi dire una guest star, vive di vita propria e porta sempre con sé una storia che aderisce perfettamente ai protagonisti del film. Diverso è il caso americano nel cui cinema il cibo rappresenta sempre un corollario, qualcosa che c’è per esigenza di copione ma che nulla c’entra con la storia o tanto meno i protagonisti, come succede ad esempio in American beauty. Lì il cibo è solo scenografia.
Cosa hai messo in evidenza nel tuo saggio?
Proprio questo, il protagonismo del cibo nel cinema italiano. Non si tratta solo di citazioni ma di un’analisi delle scene più belle nelle quali il cibo è elemento centrale. Un excursus letterario/cinematografico teso a mostrare i cambiamenti epocali nella nostra società anche attraverso il cibo nel cinema. Poi questo libro è nato dall’esigenza, soprattutto mia, di raccontare il cinema da un altro punto di vista, quello del cibo appunto, ma anche dalla volontà di sottolineare il dualismo cultura e cinema nel senso che, molto spesso, certi film che trattano il cibo in modo particolare, intrinseco o estrinseco alla storia, vengono etichettati o confinati nell’ambito della commedia. Non è sempre così, anche nel cinema d’autore il cibo entra quasi prepotentemente.
Argomento pericoloso perché si cade spesso nei cliché: come si evitano?
Pericolosissimo. Certi cliché però non si evitano, anzi, sono il valore aggiunto di un film, è il caso di Fumo di Londra di Alberto Sordi, citato anche nel libro, che ha fatto dei cliché i protagonisti della pellicola, bisogna esserne capaci però. E allora non si cade in nessun errore e paradossalmente il luogo comune viene sdoganato. Se si gioca con i cliché consapevolmente, come una strizzata d’occhio tra autore e pubblico, risultano la cosa migliore per la storia. Il cibo è l’elemento fondante del cinema sordiano ad esempio: la ricerca del ristorante italiano a Londra, il fannullone che cerca sempre cibo, il nobile decaduto che preso dai morsi della fame s’inventa di tutto pur di scroccare un boccone. I cliché poi, consapevolmente, si possono sempre evitare, ma sono altre storie.
Hai riscontrato degli impieghi insoliti dell’escamotage cibo nelle riprese cinematografiche?
Sì certo, tantissimi. Il cibo che viene usato per suicidarsi ne La grande abbuffata, usato come strumento di tortura ne La mazzetta, usato come arma nell’episodio Hostaria de I nuovi mostri, usato come elemento di ricatto in Amici miei, usato per sottolineare pochezza intellettuale ne La grande bellezza. Nel mio libro c’è anche e soprattutto questo tipo di ricerca.
Cosa dovrebbero sapere a riguardo gli appassionati di cinema?
Dovrebbero saper leggere tra le righe e cogliere le differenze senza fermarsi all’apparenza di un film, leggero non vuol dire superficiale e credo sia proprio questa la differenza fondamentale. Ci saremo meritati Alberto Sordi ma ci siamo meritati anche Nanni Moretti, ben vengano dico io e aggiungo, ce ne fossero.
La scena che da cultore del cinema ti fa divertire di più?
È una domanda difficile a cui rispondere, probabilmente potrei scriverci un altro libro. In effetti sono tantissime le scene che mi fanno divertire, circoscrivendo però l’ambito a quello del libro posso dire che per me la scena più divertente è quella dell’esplosione del cesso, non si può dire in altra maniera, nel film “La grande abbuffata” di Marco Ferreri.
La scena di cibo invece che ricordi avere maggior charme ed eleganza raffinata?
L’elegantissimo Vittorio De Sica che dà lezioni di galateo ad Alberto Sordi ne Il conte Max. È una scena raffinatissima e di un’eleganza senza pari se pensiamo che il tutto si svolge davanti ad una semplice cotoletta impanata.