Francesca Romano artista ci ha colpito ad Affordable Art Fair perché ha portato alla fiera d’arte una scultura ingannevole e bella. Perché da lontano, La Sposa della Romano sembrava un inno alla moda femminile. Da vicino era una terribile denuncia sulla condizione della donna, con un vestito che dalle sembianze di tulle si rivelava in tutto il suo dolore: era di vetro, come vedete nelle foto, e faceva male.
Indagando l’origine di questa scultura ci siamo imbattutti in una straordinaria storia di percorsi di vita. Francesca Romano è partita da Vibo Valentia in Calabria a 7 anni nel 1967, arrivata a Milano ha contribuito con la sua arte scenografa (perché di arte è bene parlare) ad alcuni dei capitoli più importanti della tv italiana. E ora è scultrice. Nell’incontro, ci ha raccontato delle sue memorie da studente, di una Milano impaurita dalle contestazioni e della rinascita con il glamour tv anni 80. E il passaggio alla fiction Rai, che allora si chiamava “TV degli sceneggiati”.
Francesca, la tua arte rimanda al tema della violenza femminile e cattura molto l’attenzione. Come te lo spieghi?
Uso solo argilla e vetro, è più crudo, forse è diretto. La Sposa sembra essere una spensierata donna avvolta in un tulle, invece soffre. Colpisce molto, emoziona, vedo che le persone pensano ci sia un’anima, le statue non sono donne aggressive. Spesso l’arte contemporanea è associata al cruento, usa sangue per shockare. Le mie donne non vogliono ferire ma emozionare.
Perché la sposa è trafitta dai vetri?
La sposa non è scelta in quanto donna che va all’altare, ma è un soggetto femminile che ama, abbraccia tutte, le conviventi, le compagne e le amanti. Le vesto con l’abito che sogna ogni donna, che a volte però si trasforma in prigionia, non è sempre quell’abito d’amore che speriamo di indossare. Faccio le sculture con l’utilizzo del vetro da 10 anni, prediligendo volti di donna che parlano di violenza subita, di sentimento negato.
Ci racconti come hai iniziato?
Arrivo da una famiglia che mi ha sostenuto nelle mie decisioni ma non aveva connessioni con lavori nella cultura. A Milano, da piccola, con mio padre, mi facevo portare al cinema la domenica. Ricordo un western visto al cinema Mexico, mi sembrava un evento. Io che in Calabria aspettavo il cinema all’aperto di Ferragosto per vedere i film al paese. Così mi sono iscritta al liceo artistico, ma per volere dei miei l’ho fatto in un ambiente protetto. Sai, Milano, anni 70, le contestazioni…
Non erano giorni facili per una giovane studentessa, immagino.
Sì, ma poi all’Accademia di Brera ci sono arrivata, studiando Scenografia, anche grazie a un professore che aveva detto ai miei: Francesca ha talento, fateglielo fare. Ho terminato nel 1983 e ho subito iniziato una lunga collaborazione con la Rai e l’allora Fininvest.
Come ci sei arrivata?
Il primo contratto a Fininvest l’ho avuto semplicemente presentando i miei disegni a Milano 2. I miei progetti di scenografia nel mio book hanno colpito e ho iniziato a lavorare al programma del pupazzo Five. Poi ho fatto le scene per La Luna nel Pozzo, il varietà con Domenico Modugno che è passato alla storia perché durante le registrazioni lui ebbe l’ictus.
Come si lavorava all’epoca?
Tutti i grandi varietà di Canale 5 come Quo Vadiz erano programmi di punta e il digitale non c’era, era tutto molto costruito, si passava molto tempo a progettare con gli altri assistenti scenografi. Fu lì che conobbi alltri professionisti che mi portarono alla Rai per una trasmissione sulle regioni italiane.
Poi è arrivata la grande occasione con Salvatore Nocita: I Promessi Sposi. Cosa ricordi?
Era il 1988 e le produzioni erano gigantesche, il budget era di 25 miliardi di lire, un lavoro internazionale con Burt Lancaster per cui la fase preparativa durò due anni. Molte scene erano in esterna ma c’era anche molto costruito, giravano per 6 mesi, c’erano 4 aiuto-scenografi di cui tre a disegnare per mesi. Abbiamo ricostruito il Convento della Monaca di Monza, il Lazzaretto, tutto nei vecchi padiglioni della Fiera di Milano, quella era la nostra Cinecittà. Fu girato in pellicola, con sviluppo, stampa e montaggio fatto da professionisti interni, un’esperienza che non farò mai più. Abbiamo girato a Bergamo, Pavia, a Lubiana. Lì rimasi un mese da sola perché lo scenografo principale, Enrico Tovaglieri, non poteva essere sui set contemporaneamente e ho avuto l’incarico di dirigere da sola 20 uomini tra falegnami e decoratori.
Negli anni 90 poi hai proseguito da sola. Come si lavorava?
Nel 1993 ho disegnato il mio primo set di un film: Servo d’amore di Sandro Bolchi con Remo Girone, che arrivava dal successo planetario de La Piovra. Quando penso a quanta aspettativa c’era, sembra incredibile. Mi sono data sempre di più alla fiction, lavorando con Ugo Gregoretti ne Il Conto di Monte Cristo, Nicolò Bongiorno in Rocco e Mauro Campiotti nel Canto di Maddalena. A quel tempo facevo anche spot, con l’agenzia pubblicitaria Armando Testa, la società di produzione Controcampo.
Come influisce questa formazione sulla tua arte ora?
Nel 1996 ho iniziato ad esplorare la scultura perché volevo stabilire con l’argilla un rapporto intimo, senza che nessuno mi dicesse quello che andava fatto. In questo il plasmare, avere le mani sporche e formare è un’esigenza che mi è arrivata dopo tanti anni di esecuzioni. Ho sempre lavorato su questa forma di necessità di formare, ma se pensi che i miei studi relativi alla scultura risalgono al liceo, capisci bene che ho dovuto poi sperimentare molto. Mi sono iscritta a un corso per capire le tecniche e ho iniziato.
Pensandoci oggi, è stata dura mollare la tv, che è uno dei campi che crea più affezione?
In Rai mi conoscevano i dirigenti della scenografia, sono stata coinvolta nei lavori più belli della Rai di Milano prima che venisse tutto esternalizzato. Il mestiere è cambiato molto, le ultime cose che ho fatto risalgono alle edizioni di Fabio Fazio di Quelli Che Il Calcio. Curavo i set dei comici che intervenivano al programma domenicale, ogni settimana avevo un set da ricostruire per Littizzetto, Teo Teocoli, Marchesini, Abbatantuono. Però c’è anche un progetto inedito che il pubblico non ha mai visto che feci con Fazio.
A che ti riferisci?
Al suo passaggio a La7, all’epoca si parlava di terzo polo che non partì mai. Dovevamo lanciare questo talk show che è poi simile a quello che fa oggi con Luciana Littizzetto. Era tutto allestito al Teatro dell’Arte alla Triennale di Milano ma non andò mai in onda.
Oggi con che spirito ti avvicini all’arte?
Voglio essere scultrice, lo dico dopo aver lavorato per la scenografia che abbraccia a tutto tondo la creazione. La scultura è l’espressione artistica che mi piace di più. Ho bisogno di modellare, sentire la materia, mi piace essere artefice di quello che faccio. Per me è una bella libertà e aumenta la creatività. Oggi, avendo più tempo, e una persona creativa non riesce a stare ferma, la mia testa viaggia. Prendo la creta e inizio a modellare, mi sono avvicinata alla tecnica di costruzione giapponese delle ceramiche raku che è stata una vera iniziazione.
Di che si tratta?
Il Raku è una tecnica giapponese antichissima, l’oggetto in creta quando è nel forno raggiunge oltre mille gradi. Gli artigiani giapponesi che dovevano sfornare centinaia di oggetti per il rito del té non avevano tempo di aspettare quell’alta temperatura e quindi aprivano il forno a 950 gradi. Con sbalzo di temperatura e con pinze aggiungevano altre lavorazioni e ottenevano qualcosa di veramente unico e più veloce. C’è sempre qualcosa di nuovo da esplorare con la creatività. Per questo dopo La Sposa mi dedicherò a progetti con altre dimensioni espressive. Volevo chiudere un cerchio, quella scultura che vi ha incuriosito è un dimensione complessa e faticosa che mi è costata anni di ricerche di materiali.
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