Le foto notturne di Betta Gancia, artista torinese che lavora a Milano con un’attitudine a usare l’obiettivo come voce dell’anima, sono di una luce sorprendente. Non solo perché ritraggono in questa serie che vi proponiamo, vere luci notturne catturate in movimento nei loro squarci nel buio. Ma perché riescono a raccontare delle storie in cui tutti ci identifichiamo, con semplici tratti luminosi e colorati che evocano esperienze, tracce di vita, ricordi sopiti. Dove, in sintesi, il nero è l’incognita che ci circonda e il tratto luminoso è la speranza e la positività.
“Ho cominciato a lavorare intorno a queste immagini due anni fa – ci spiega l’artista, protagonista la settimana scorsa di una personale presso lo spazio di Martino Midali – spinta da un forte desiderio, una curiosità insaziabile e l’aspirazione ad approfondire un progetto visivo che avevo già abbozzato tempo addietro, quando mi sono concentrata su immagini ugualmente ispirate alla natura e al mondo che mi circonda. In quel caso, l’oggetto del mio interesse di fotografa era il cielo. Il mio lavoro sulla luce e sulla notte ha in realtà una radice antica, che affonda nel fascino per la luminosità naturale, quella calda del sole che ci permette di vedere il cielo come una vivida e piena immagine del giorno. Quella sensazione che ci regala la vita. Per questo, dalla luce del giorno, dalla pienezza del cielo, ho pensato di concentrarmi sulla notte come assenza di tutta la luce possibile“.
Questa la premessa. Ma come riprendere la notte, come racchiudere in una foto la sua estrema intensità? “La notte mi incuriosiva. Il suo buio mi sembrava la parafrasi di tanti concetti e tanti timori: la cecità, la solitudine dalle cose e dalle persone, la morte. Ma poi, da quel buio, da quel nero assoluto, nelle mie fotografie appare qualcosa. Forse una serie di tratti, bagliori improvvisi, linee discontinue che indicano, anche se a stento, una possibile strada e concedono una speranza di vita e di calore. Forse, di casa. Poi, successivamente, la vita si anima ancora di più ed ecco sulla superficie fotografica, apparire una sagoma familiare – come un paese in lontananza”. La fotografa dice che a destare il suo interesse è “il movimento che ha prodotto e accompagnato alcune immagini della mia serie. A volte, quando “vedo”, in realtà non guardo e mi rimane nella mente una forma e un ricordo distorto che non posso recuperare perché l’attimo è passato per sempre. Come nelle fotografie. Anche la musica, ad esempio, ha un’anima; noi percepiamo il ritmo della bacchetta del direttore d’orchestra e vediamo la melodia che scaturisce da quel gesto“.
Sono foto nate da sovraesposizione e anche molta passione e pazienza. Betta Gancia rivela: “Non ho amato il digitale. Credo che l’ immediatezza dell’immagine abbia tolto la poesia dell’attesa, della sorpresa e anche, a volte, della delusione. Ma contro il “progresso” non si può fare nulla se non adeguarsi e accettarlo con gioia e grazia. Anche se questo non è sempre facile. Ora sto continuando a lavorare e a studiare cose nuove. Procedo in questo modo nella mia ricerca visiva e interiore”.