Parlare di cinema con Samantha Casella è facilissimo, una regista apprezzata che ha ben presente la strada percorsa, la sperimentazione e la via dinnanzi a sé. Una donna simpatica e affabile che con intelligenza è capace di portare in luce contraddizioni e sistemi della macchina cinema ma altrettanto capace di portare sul grande schermo storie che non si fermano alla sola realtà fenomenica delle cose.
Dopo aver fatto incetta di premi, e ancora non è finita, col suo film “Santa Guerra”, l’abbiamo intercettata tra un tour promozionale e l’atro per farci raccontare qualcosa dopo la sua presenza alla Mostra del Cinema di Venezia.
Sei tornata dal Festival del cinema di Venezia con due premi, dopo poco più di due mesi da quelle giornate che bilancio fai?
Da Venezia tutto si è evoluto in modo frenetico. Il film sta intraprendendo un cammino entusiasmante nel mondo dei Festival tanto che finora abbiamo vinto sedici premi tra Stati Uniti, India, Iran e Olanda. In parallelo si sta verificando una sorta di distribuzione “porta a porta” in varie città. Si tratta di proiezioni mirate in cui io e qualche membro del cast seguiamo fisicamente il film in modo da poter avere un incontro con il pubblico.
Ci parli brevemente di Santa Guerra?
Santa Guerra è un film che si muove attraverso atmosferiche oniriche, surreali, in quanto è il viaggio nel subconscio di una donna incapace di superare il trauma che la schiaccia. Parlando di subconscio vien da sé che i 78 minuti di film non siano lineari.
Eugenia Costantini è al centro di questo racconto, cosa ci puoi dire di lei e del suo personaggio?
Eugenia Costantini è un’attrice straordinaria perché unisce un’innata istintività al bisogno di punti fermi, di elementi razionali su cui sviluppare il personaggio. Entro certi limiti sono gli stessi processi mentali del suo personaggio: una donna incastrata, divisa tra una sua parte razionale che cerca di elaborare il trauma che la corrode e quella istintiva che continua a ripresentarsi sotto forma di ossessione, quasi fosse lei la prima ad imporsi di non dimenticare, senza ricordare pienamente, allo stesso tempo, ciò che l’ha devastata. Indubbiamente Eugenia ha fatto pulsare il cuore del film.
Mentre di Ekaterina Buscemi?
Ekaterina Buscemi è dotata di una forza espressiva notevole e di conseguenza ne è uscito un personaggio intenso, a tratti vibrante. Interpreta uno sdoppiamento di Eugenia che vaga in una dimensione che rappresenta l’Ade, quel non luogo dove dovrebbe riposare il trauma, il peso che grava sulla coscienza della protagonista, ma che invece continua a vivere come un fantasma.
Nel film c’è anche la partecipazione di Maria Grazia Cucinotta, cosa ci puoi raccontare?
Da ragazzina rimasi abbagliata da “Il Postino” e la presenza di Maria Grazia Cucinotta nel mio primo film ha per me un significato profondo. Lei interpreta una delle tre parche, coloro che, stando alla mitologia, stabilivano il destino degli esseri umani. Mi ha colpita che abbia subito accettato di partecipare al film, tra l’altro dando la sua disponibilità in un periodo molto difficile, in pieno covid.
Lo definiresti un film al femminile?
Credo che sia un film al femminile “per forza di cose”. Questo viaggio nel subconscio della protagonista è come se desse vita a tutte le altre versioni di sé stessa. In un certo senso tutte le donne che si incrociano sono la stessa donna: gli stessi incontri con le parche o con il fantasma della figlia sono “mostri” irreali, creati dalla sua coscienza.
Tu vieni dal cortometraggio, ricordiamo il pluripremiato “Banksy“, come è stato il passaggio al lungometraggio?
Indubbiamente un lungometraggio richiede un dispendio di energie nettamente superiore. Devo però ammettere che la possibilità di realizzare un film così nelle mie corde mi ha permesso di muovermi su un terreno che è stato un po’ come una estensione di un percorso già esplorato durante gli anni del cortometraggio.
Come regista e autrice, allo stato attuale, si sente l’ingerenza del politicamente corretto?
Credo che il politicamente corretto sia una regola (non scritta) e imposta a coloro che scelgono di intraprendere un cammino commerciale, ossia un sentiero che non mi riguarda e nemmeno mi interessa. Quando si arriva al cospetto del classico bivio c’è sempre un prezzo da pagare: io ho deciso di fare solo ciò sento vicino e se non esiste nessuno disposto a credere nelle mie storie preferisco non fare nulla.
Ti dividi tra l’Italia e gli Stati Uniti, dove ti senti più a casa tua? Anche professionalmente…
In Italia mi sento a casa quando sono dentro alle mura domestiche. A Los Angeles mi sento veramente a casa quando passeggio sulle colline dell’osservatorio Griffith, in quei punti che permettono una vista sulla città. Professionalmente parlando ho diversi punti di riferimento, sia in Italia che negli Stati Uniti. Purtroppo, sono molto categorica, mi devo ripetere, professionalmente tutto parte da dentro di me, è più un problema dei miei collaboratori sentirsi a casa con me.
Stai già pensando ad un prossimo lavoro?
Ho già un secondo film, pure questo molto personale anche se decisamente più narrativo. In realtà ce ne sarebbe anche un terzo. Dal 2018 ad oggi sono successe talmente tante cose che è come mi fossero passati addosso dieci anni. Non so, sembrano esserci i presupposti perché il secondo possa andare in porto, a volte mi chiedo se è veramente quello che voglio dalla vita.