Impossibile non riconoscerlo ai party di moda o nelle pubblicità online. Medellin, cantautore della scena urban milanese di 40 anni, è famoso nel suo campo per due caratteristiche fondamentali del suo personaggio pubblico: i tanti tatuaggi in faccia e la copiosa melodia nelle sue canzoni.
Attualmente è in promozione con una serie di singoli (l’ultimo è “Resta fuori”) prima dell’uscita del suo album dopo l’estate.
Il personaggio privato, che abbiamo provato a far emergere con questo incontro, però racconta ancora di più: attenzione ai messaggi, una vita professionale dai mille rivoli, un desiderio di questi tempi desueto di ritorno alla dimensione più squisitamente umana dei rapporti.
Medellin, chi popola i tuoi ascolti nel 2023?
Lazza, Mr Rain. E sono cresciuto con gli Articoli 31. Quello che stiamo vivendo oggi è un ritorno allo stile che loro avevano lanciato negli anni 90, quindi canzoni con strofa rappata e ritornello melodico. Quello era un modo di creare il tormentone che resta in testa. Il cambio di ondata che stiamo vivendo arriva dopo anni di costruzione di barre serrate, dove si puntava al testo e basta. Oggi si torna alla melodia.
Da musicista e rapper cosa ti appassiona nel panorama musicale?
Oggi c’è più elettronica, mix e delay e la mia preferenza è per uno stile più melodico, perché ho studiato pianoforte, ho quella formazione. Accanto a Sottotono ed Eminem, tra i preferiti ci sono i Black Eyed Peas del periodo della formazione originale.
La tua fascinazione per i tatuaggi come è nata?
Per cominciare mi sono tatuato la coscia per provare. Quando l’Italia iniziò a regolamentare il settore nel 2013 io presi la licenza, iniziai a tatuarmi perché fino ai 30 anni ne avevo pochissimi. E poi dopo ne ho fatto un mestiere, tatuando gli altri.
Che significato hanno per te sul tuo corpo e volto?
Ogni tatuaggio è ovviamente sofferto, pochissimi li ho fatti a puro scopo decorativo. Come tante altre persone della mia età, ho seguito una sorta di protocollo. La mia generazione ha superato vari step e si è trovata tutta nel mondo del precariato lavorativo. Quindi ho smesso di seguire il gregge, non sono omologato, sono diventato un ribelle. Tatuarsi il viso non è un senso di libertà ma la ricerca della libertà stessa.
Quindi oltre il disegno sul corpo, è un’attitudine?
Ho fatto altre scelte analoghe nella vita. Vanno di pari passo, quando riesci a rendere il posto dove vivi un posto migliore, e migliori te stesso e la vita di chi ti sta accanto, in modo onesto, il lato estetico è totalmente in secondo piano.
Tu parli bene in pubblico, hai grande comunicativa. Da cosa ti deriva?
Ho fatto il classico, non si scherza. Non sono uno che fa le battles sono di quelli che se lo crescono dentro il testo e poi lo curano. In quello che scrivo c’è autoironia, un po’ di mal di vivere perché una persona non è mai unilaterale, ci sono vari aspetti che ci accompagnano altrimenti diventiamo noiosi per tutti.
La tua immagine ti rappresenta, ma il tuo lato nascosto quale è?
Nei miei testi trasmetto voglia di riscatto, umorismo, la sofferenza non la celo. E voglio che venga fuori la verità, perché ovviamente se il pezzo non è autentico, sentito, farina del proprio sacco, mentre gli scheletri nell’armadio li tengo per me. Quelli non escono, soprattutto credo in un modus operandi dei vecchi artisti: cercare di sorridere anche se stai morendo dentro, la particolarità di tutti i creativi. Si soffre in silenzio e si sorride in pubblico.
La Milano che Medellin ha vissuto da ragazzino che città era?
Quello che è cambiato è la comunicazione, rovinata dai social media. Non c’è più contatto diretto, la mia generazione è stata l’ultima a godere dei motorini e dei raduni fisici. Finché pure io ho comprato nel 2000 il primo Motorola che è stato l’inizio della fine della comunicazione.
Milano è una favola che non regge più?
Tutte le città sono divise, la globalizzazione è un mondo molto utopistico, al momento ognuno mantiene la propria cultura. È difficile che ci si mischi, almeno questo è un processo che non avviene in maniera naturale.
E tu cosa fai per favorire questo?
Il 31 marzo esce un mio pezzo che si chiama Sparta che parla della sopravvivenza che ho cantato con Baha che è in arabo. Voglio integrare la comunità araba nel mio mondo, viviamo tutti sotto lo stesso cielo. Un modo per far capire che la globalizzazione non è solo informatica ma anche sociale.
Perché l’hai chiamata Sparta?
Un po’ la metafora della vita, dove bisogna lottare, mantenere l’umanità nascondendo le debolezze. E lottare contro gli stereotipi. Io ho molto rispetto per chi ha difficoltà economiche, per chi arriva qui da noi imparando un’altra lingua, cercando un inserimento nella società.
In cosa si riflette questa poca propensione al contatto umano di cui parli?
Lo vedo anche con i miei followers che mi incontrano e non mi salutano per strada e poi mi mandano i messaggi su Instagram perché è più facile dialogare dietro una tastiera. La vergogna o la difficoltà di comunicare è diventato un problema. Vero, con Internet ci sono molte opportunità, possiamo collegare quello che facciamo con tutto il mondo, ma il contatto umano è diventato difficile. Il senso dell’amicizia è diventato diverso, anche archiviare una relazione è diventato un gesto più disimpegnato ormai. Lo si fa con un messaggio.
Cosa non ti piace delle frenesie contemporanee?
Mi sembra ci si sia abituati a un grande supermercato dove si può scegliere, basta aprire le chat o le piattaforme dove possiamo incontrare chiunque a piacimento. Il fenomeno socialmente parlando è diffuso. E c’è anche una certa superficialità nel giudicare gli altri. A me dicono: non pensavo con quella faccia che hai che fossi un pianista. Le persone mi si approcciano con diffidenza ma devo dirti che mi piace. Perché tutti in questo momento vogliono dare una immagine perfetta di sé. E invece da me l’impressione non è che migliorata quando mi conoscono. Le persone mi guardano e si aspettano il peggio, quindi sono un privilegiato a riguardo.
Le tue ambizioni dal punto di vista professionale a 40 anni?
L’età è solo un numero, qui in Italia si è considerati finiti a 35 anni mentre all’estero è diverso. Credo che alcune cose si conquistino con la maturità, viviamo in un’epoca in cui anche nella musica i top players sono considerati solo i giovani.
Perché succede questo?
Perché non si ascolta il brano più bello ma quello con più streaming. A prescindere dalla sua valenza. Bisogna adattarsi a queste strategie, ma io dentro ho 20 anni, mi comporto come un ventenne. Una particolarità che mi piace, come in Lazza, è il pianoforte nella musica. Il rapper può avere anche cultura, in una categoria in cui chi si approccia al genere è solitamente di estrazione povera. Ma noi siamo anche pianisti. La nostra musica è fatta di studio e in questo sono un privilegiato ed entrambi credo ci distinguiamo dando un valore aggiunto alla categotia
Saresti accolto bene dai puristi del tuo genere?
Dal vivo porterei un pianoforte, se sono all’altezza faccio quello che ritengo opportuno. Il mio live sarà diverso dagli altri. Quello che ci qualifica nella vita non è come sembriamo ma quello che facciamo. Se si ha la possibilità di sfoggiare le proprie capacità è già una vittoria.
Che idea ti sei fatto del business che c’è attorno al genere rap oggi in Italia?
I rapper sono pagati bene, è vero. Però i mondi della tv, moda, discografia sono gestiti da persone che non hanno niente a che fare con la creatività. Sono loro che si occupano di non farci solo emergere, ma di sconfiggere l’effetto meteora. Il vero artista si vede dalla continuità. Le collaborazioni aiutano nel momento in cui te le sei guadagnate e dipende tutto da come le affronti e da come le proponi. Le capacità non hanno a che fare con la viralità. I miei reel al pianoforte non sono distorti, non si bara, sono semplici e crudi senza l’ ausilio dell’ elettronica. Questo metto in piazza sui miei social.
La tua idea di vita bella quale è oggi?
Una vita umile, ho superato il momento dell’infatuazione per le macchine lussuose o simili. Non mi metto il Rolex al polso, voglio vivermela la vita. Anche quando spendevo soldi per cose costose, ero profondamente infelice. La qualità della vita la misuro con le relazioni. Più hanno valore, più dormi sereno, l’ho capito tardi.
Cosa hai imparato finora?
Soprattutto che quando si cade, il ricco è come il povero: hai dalla tua parte le persone giuste che conti sulle dita di una mano. Io punto a questo nella mia vita, avere le persone giuste accanto che non ti fanno sentire sbagliato. Voglio vivere in un posto dove posso sentirmi giusto e dove poter mettere le radici.