Sin dalla pubblicazione del suo primo romanzo, Luca Cantore D’Amore, 32 anni, salernitano d’origine e milanese d’adozione, si è diretto a un lato particolare della vita. Nelle pagine de “L’estetica del decanter” (Il Papavero, 2019), il critico d’arte e storico tratta dell’ineffabile e sfuggente forza delle emozioni. Incontrare e ascoltare gli stati d’animo e le ragioni del giovane intellettuale è innegabilmente affascinante. Luca ha un eloquio forbito e imprevedibile, è pronto a fornire la sua versione del mondo a chi lo ascolta senza piglio impositivo. Un vero cultore della parola, quella di peso. Che convince, proprio come quando è riuscito a portare l’arte contemporanea a Il Prisma, lo studio di architettura internazionale a via Adige a Milano, che oggi è uno scrigno di preziosi confronti periodici di alto valore culturale. Lì Marco Nereo Rotelli presenterà nel corso dell’anno una serie di allestimenti artistici a cura di Luca Cantore D’Amore.
Luca sei un curatore, appassionato d’arte. Ma perché ti senti vicino al ruolo del poeta?
Il poeta è un mestiere a tempo determinato, come la felicità per Totò, attimi di dimenticanza. Dico questo perché la poesia è un attimo, il poeta viene attraversato da attimi di emozione, pensa di poter capire il mondo in quel momento. Poeta diventa anche chi poeta non è. Lo status commosso può durare pochi secondi o infiniti varchi.
Esiste la poesia oggi?
L’ultimo poeta che si ricorda è Gesualdo Bufalino, oggi la poesia è scavalcata dalla canzone. I veri poeti, socialmente riconosciuti, sono diventati i cantautori. Penso a Battisti, Dalla, Baglioni, De André. Perché la parola con la musica ha fatto diventare il concetto poetico molto più divulgativo, meno pomposo.
Chi presta attenzione, oggi, è un eroe?
Noi siamo degli eroi. Ho un umile strafottenza quando scrivo, non posso pensare a chi legge. Deve piacere a me, non perché creda di essere bravissimo. Il valore della verità stimola l’autenticità, contro la retorica preponderante. La democrazia è un valore intellettuale e si esprime con la scrittura. Se si è liberi bisogna scrivere cose libere.
E chi legge?
In un momento di grande velocità del mondo con le rivoluzioni tecnologiche, ciò che ha avuto la peggiore parte è ciò che richiede tempo. Non c’è più tempo per leggere. La lettura è l’unico ambito che non consente simultaneità con altre attività, ecco perché nessuno legge più.
Cosa ti ha spinto a scrivere anche libri?
Quando ho pubblicato il mio primo libro, nell’inesperienza dei miei anni, pensavo sempre quale contributo al mondo stessi dando. Quando ho capito che il libro qualcosa poteva darla, e non solo piacere a me, ho deciso di consegnarlo alla stampa. Il vero freno, o incentivo, è sempre con noi stessi.
La parola presuppone anche l’eloquio nel tuo mestiere. In che modo pensi di essere convincente in quella dimensione?
Il mio strumento di lavoro è quello più comune, parlo come tutti gli altri. Come l’uomo qualunque o come il poeta, Dante. La discriminante tra il paroliere e il poeta è il modo in cui si mette in ordine la parola. Poi c’è il linguaggio non verbale, una modalità di comunicazione che cattura l’ascoltatore. Il fascino, la seduzione di come si trasmette un concetto. Siamo nel mondo dell’invisibile.
Come ti relazioni con il pubblico e con gli artisti che segui?
Sono figlio di un neurologo. Penso che il neurologo stia al paziente come il critico d’arte stia all’artista. Bisogna saper accarezzare le persone, non occorre essere violenti, brutali, categorici. La chiave della bellezza è la gentilezza.
Viviamo in un mondo di ostentazione di trionfi. Quando la vita non funziona, come sei?
Il critico d’arte è un sognatore, non un ambizioso che valuta il proprio successo solo con il conto in banca. Posso essere insoddisfatto anche con tanti soldi, perché non ho parametri legati alla materialità della vita. Quello che mi è accaduto finora, nella mia esistenza, affonda le radici nella malinconia, nel dolore. Senza il fallimento non avrei mai trovato i gangheri di me stesso, per correggere il tiro.
Momenti duri ne hai avuti?
C’è stato un momento difficile della mia vita. La malinconia è stata la mia marcia in più, ma qualche volta è diventata retromarcia. Io che sono un animale sociale, ho patito la mancanza di contatto ed empatia durante la pandemia.
Queste luci e ombre convivono bene in te?
Stare al mondo vuol dire vivere un grosso dramma, dinanzi al quale dobbiamo imparare a sorridere. Poche cose mi rattristano di più della felicità. Non la sopporto. Poi è ovvio che cerco di essere corretto e onesto, ma non ho bisogno di essere allegro e dopato dall’alterazione. Mi interessa essere sobrio e triste.
Parte del lavoro che fai è basato sulla parola e sull’immagine, che sono due aspetti di cui c’è oggi un’abbondanza spaventosa. Come navighi in questo mare?
L’asse della tua bella domanda deve essere spostato. Io comunico concetti e pensieri. E quindi faccio entrare dentro la parola e l’immagine. Il mio vero lavoro in questo oceano che richiama ‘la festa dell’insignificanza’ di Milan Kundera, è saper selezionare cosa ha un valore. Siamo ingolfati da tanti stimoli. Come si riconosce quello che resta e non cade nel dimenticatoio? Il tempo decide più di quanto non possa decidere io.
Cosa privilegi nella vita professionale?
La libertà è tutto. Il lusso senza gusto è russo, dico spesso. Se qualcuno sceglie di comprare una Ferrari fucsia è libero, ma dietro quella scelta c’è il racconto di chi sei. E chiunque abbia un minimo di cultura sa giudicare. Posso essere un operaio della parola, ma il vero talento dell’intellettuale oggi è riconoscere il valore in un mondo di concorrenza sterminata.
Un successo personale che ricordi?
Il mio più grande successo è stato incontrare mio padre nella dimensione delle idee. Un rapporto di potenza, sofisticatezza unica. Un inciampo felice come l’amore, che accade raramente e ne vado fiero. Dal punto di vista professionale è bello che un giovane venga percepito come detentore di valori classici, eterni. I greci erano belli perché pensavano in modo bello.
Un successo professionale di cui puoi vantarti?
Sono molto soddisfatto del lavoro con lo studio Il Prisma, perché sfrutta l’architettura per progettare meglio la vita degli uomini. Cerca di progettare il benessere, che è parte di un’indagine altissima.
Chi sei oggi, tu?
Il mio rapporto con l’oggi è asimmetrico, la vita pubblica prende una parte preponderante rispetto alla privata. Ma io ho una geografia e un tempo tutto mio che frequento mai e sempre allo stesso momento. Che è quello dei miei pensieri. Fuori la porta di casa c’è la cannibalizzazione, accade per chiunque, sembra che il mondo sia indifferente alle questioni che hanno a che fare con l’anima. Credo che il mio rapporto con l’oggi sia privilegiato dall’essere stato in grado di ritagliare ‘sparuti e incostanti sprazzi di intimità con me stesso’, per citare Sorrentino. Ma a volte serve avere la maschera per combattere. Perché siamo tutti umani, con le fragilità e le emozioni, sia in tempi di successo che nei dolori.