Un brano dolcemente spiazzante come “Geronimo” dimostra tutta la creatività di Apice, uno degli esponenti più talentuosi e originali del nuovo panorama pop italiano. Nato a La Spezia e cresciuto in quella fucina di talenti che è La Clinica Dischi, Apice torna con “Attimi di sole”, il secondo LP che sta per essere presentato in un tour, Fort Apice, che lo vedrà esibirsi anche all’Arci Bellezza di Milano il 7 aprile con CmqMartina e SvegliaGinevra come special guest.
Come per “Beltempo”, l’esordio del 2019, è stato scelto il mare e la costa del Golfo dei Poeti vicino La Spezia per l’immagine di copertina del nuovo album di Apice. Ma mentre nel disco precedente c’era un senso onirico di perfezione, qui c’è il contrasto tra la bellezza della natura e la precarietà di una costruzione fatta dall’uomo.

C’è qualche significato particolare o è stata scelta “solo” perché è una bella foto?
È stata scelta, ovviamente, anche perché è una bella fotografia. Poi, sai, noi liguri abbiamo la fortuna di avere radici in quello che, da bravo campanilista, ritengo essere uno dei posti più belli del mondo, quindi bellezza e senso d’appartenenza finiscono spesso con il sovrapporsi. Con Francesco Quadrelli condivido un forte attaccamento al territorio, volevamo raccontare però qualcosa che andasse oltre tutto questo, “fotografando” il momento di un’umanità in rovina, decadente se non decrepita; hai citato la copertina di “Beltempo”, ecco, lì l’elemento umano era in primo piano, vivo, vegeto e libero. Anche la parola che hai usato, “onirico”, mi sembra giusta per quel tipo di soggetto. La copertina di “Attimi di sole” trovo invece sia drammaticamente concreta, materica. C’è poi un ultimo motivo che ha guidato la scelta, se vogliamo più personale e intimo; quella zona fotografata, che si chiama Schiara ed è raggiungibile solo con un grande atto di fede e buona volontà, è dove risiedono le radici più profonde della mia parte ligure: mia nonna è nata e cresciuta fra quei sentieri (tra Schiara, Albana e il Persico), e in qualche modo credo di averlo fatto anche io. Pur essendo cresciuto da tutt’altra parte…
Il legame con la tua terra e il mare che la circonda appare molto forte: amore, ma non solo. La Spezia è madre, ma anche matrigna?
Come tutte le madri, credo. Ho dovuto vivere lontano da qui per qualche anno prima di tornare, un po’ meno “spietato” di prima. La nostra è una città che è uno stato d’animo, spiegarlo a chi non è di qui è roba difficile, e io sento molto “mio” questo “spirito” di spezzinità. Un tempo, lo avvertivo meno: forse invecchiando sto migliorando, o peggiorando drasticamente. Dipende da che punto di vista si guarda la cosa.
A proposito di vita spezzina, La Clinica Dischi (la tua casa discografica) è una specie di Factory Warholiana per le collaborazioni che nascono tra i vari artisti e il senso di amicizia e di comunità che si respira. Chi ha partecipato al tuo disco e tu in che progetti hai lavorato?
Al disco hanno lavorato tante persone, e credo che questa sia la cosa più bella del “fare un disco”: farlo condividendo, e lasciando che quello che pensi appartenerti attraversi altri, e ne riemerga cambiato ma soprattutto meno “tuo” di quanto non lo fosse prima. E che bellezza, quando si abbandona la trincea dell’individualismo più “autarchico” per rivolgersi ad un approccio collettivo, comunitario, condiviso appunto; dietro “Attimi di sole” c’è il lavoro di più di quindici persone, per la maggior parte tutte di famiglia Clinica ma all’impresa si sono uniti artisti e creativi provenienti da tutta Italia. Penso a Fabio Grande, che ha curato la produzione di “Mia”, a Franz Aprili che ne ha suonato la batteria a Roma, a Marcello Della Puppa che da Treviso ha curato tutto l’aspetto grafico di disco e tour, per arrivare ad Antonio Altini che ha sposato la nostra follia di portare il disco in giro per lo Stivale. Per quanto riguarda i progetti di Clinica a cui ho lavorato, te ne potrei citare tanti se non tutti, ma ritengo che la stessa risposta ti potrebbe essere data da qualsiasi altro membro della nostra piccola comunità: ognuno, qui dentro, ha il suo ruolo nella squadra, perché consapevole che solo il buon lavoro di squadra può far emergere la forza delle singolarità.
Il titolo del disco “Attimi di sole” è anche l’incipit del primo brano, che è molto intimista, ma qualcuno ci potrebbe leggere anche un riferimento all’esistenza precaria per via della pandemia. Per te, Apice, come sono stati questi due anni di libertà condizionata?
Per collegarmi a quanto detto fin qui, e soprattutto nell’ultima domanda, pensa che il titolo del disco nemmeno l’ho scelto io ma Giacomo, membro fondamentale della squadra Clinica. Guarda, penso che l’esistenza sia in generale un po’ precaria e che siano più le giornate nuvolose che quelle di sole che spacca le pietre. Poi certo, uno che scrive canzoni prova a metterci dentro la contemporaneità, provando a non correre il rischio di legarsi troppo al presente perché alla fine il presente racconta sempre qualcosa che va oltre l’immanenza dell’oggi. Al “Beltempo” di cui parlavo nel primo disco continuo a credere, ma trovo più intellettualmente onesto e coerente con la Storia non sottovalutare gli “attimi di sole”. È anche il modo migliore per godere delle piccole fortune che la vita sa offrire, anche quando la nostra non corrisponde perfettamente alla definizione di “giornata di sole”.
Quanto sei cambiato rispetto al disco precedente, come artista e come persona? Che musica hai ascoltato e quanto ti ha influenzato?
Oddio, e come faccio a rispondere a questa domanda? Più ti chiedi se sei cambiato, più ti rispondi che sei cambiato, meno lo sei. Il cambiamento vero è quello che non si avverte, credo di aver provato a dire più o meno questo in “Sono anni”. Ti posso dire però che ho ascoltato sicuramente molta musica, ma sicuramente molta meno rispetto a quanto avrei potuto e dovuto ascoltarne. Sono un ascoltatore discontinuo, maleducato e fin troppo distratto, purtroppo: ascoltare musica mi richiede un grande sforzo di attenzione e pazienza, che spesso non ho. Ultimamente, sto leggendo più libri di quanti dischi ascolto. Ma sono comunque pochi anche quelli…
In alcuni brani si sente una forte tensione verso il cambiamento e la malinconia per il passato. Bisogna soffrire per scrivere belle canzoni?
Assolutamente no, bisogna aver qualcosa da dire, o pensare di avere qualcosa da dire. E soprattutto aver voglia di dirlo, magari cantandolo per non finire col prendersi troppo sul serio. Sennò avrei fatto il poeta, o lo scienziato.
“Geronimo” è un brano sorprendente, a tratti Battiatesco. Sei un suo fan? L’idea della canzone come ti è venuta?
Sono felice che “Geronimo” ti abbia sorpreso, un po’ sorprese anche me! L’idea nasce da una riflessione sulla contemporaneità che ci circonda, su quella voglia di ritorno ad uno stato “verginale” delle cose che credo chiunque arrivi ad avvertire, raggiunta quell’età in cui tutto comincia a stabilizzarsi e forse anche un po’ ad irrigidirsi in schemi e routine. Poi dentro il brano c’è tutta l’idealizzazione dell’indiano e la stigmatizzazione del colonizzatore; ovviamente il senso è metaforico, quando parlo di indiani e di americani parlo di simboli e di ciò che mi è più utile alla narrazione della canzone. Anche se una certa propensione per gli indiani l’ho sempre avuta, mentre la stessa cosa non posso dirla per quel modello “cow boy” da Far West che spesso connota lo stereotipo dell’americano.
Nel disco c’è una una forte impronta cantautoriale italiana, ma anche eclettismo. In alcuni momenti entra in primo piano la chitarra elettrica, “Ortiche” sembra quasi un pezzo Britpop di metà anni ’90. Vedremo un Apice più rock?
Forse, chissà! Dopotutto vengo da quel mondo lì. Di certo anche in futuro proverò a far vedere e sentire ciò che sinceramente mi starà attraversando in quel momento. Ma c’è tempo!
Intervista a cura di Andrea Ferrari