Guido Harari è entrato nella coscienza collettiva del suo pubblico, che era quello che adorava i miti del rock degli anni Settanta e Ottanta, attraverso le fotografie che finivano sulle copertine e i poster di centinaia di riviste. Tutti i nomi italiani e internazionali di passaggio dall’Italia sono finiti davanti al suo obiettivo. Con qualcuno di essi, come Lou Reed e David Bowie, si è stabilito anche un rapporto che va oltre l’incontro professionale. Il grande fotografo dei divi, che oggi ha 70 anni, di cui 50 dedicati alla carriera con musicisti e personalità della cultura, oggi si prende cura del suo archivio e sforna progetti di grande spessore. Come “Remain In Light” promosso dalla sua Wall Of Sound Gallery ad Alba, in Piemonte.
Si tratta di un libro uscito per Rizzoli Lizard, un documentario in onda su Sky Arte, una mostra di successo che ha animato l’estate di Ancona, e forse ancora tanto. Nella raccolta sono presenti i momenti salienti delle sue tournée accanto ai divi del secondo Novecento, gli incontri speciali e unici, come quello di Enzo Jannacci, Dario Fo e Giorgio Gaber tutti riuniti in un unico scatto. Si ammira l’esito del lungo legame con icone del rock come Lour Reed e Kate Bush, i ricordi dei tour vissuti da dentro, come quello di Gianna Nannini in Polonia all’epoca di “Scandalo” (1990) o dei Duran Duran del 1988 nel “Big Live Thing Tour” e Fabrizio De Andrè.
Un’idea del taglio che la sua fotografia ha mantenuto fin dall’inizio la concede lui stesso, presentando il libro “Remain in Light” (da una canzone del Talking Heads) durante BookCity a Milano, all’Istituto Nazionale di Fotografia: “Ho iniziato con le interviste che sono un modo di fotografare e producevano effetti interessanti nel momento in cui scattavo. Questo mi ha dato modo di fare fotografia che parlasse di qualcosa. Nessuno è interessato a vedere ritratti di persone già note. Si vuole scoprire di più”.
Il lavoro di due anni, che coincidono con il fermo obbligatorio della pandemia, e il sogno di una vita prendono forma in Remain in Light, «Restare in luce», che è più dell’esortazione che il fotografo indirizza ai suoi soggetti prima di far scattare l’otturatore: è soprattutto una preghiera, perché la memoria di quanto si è voluto fissare non evapori.
Nel libro di 400 pagine sono documentati gli esordi degli anni Settanta come fotografo e giornalista in ambito musicale, fino ai ritratti intesi come racconto intimo degli incontri con i maggiori artisti e personalità del suo tempo, da Fabrizio De André a Bob Dylan, Vasco Rossi, Lou Reed, Kate Bush, Paolo Conte, Ennio Morricone, Renzo Piano, Wim Wenders, Giorgio Armani, Carla Fracci, Greta Thunberg, Dario Fo e Franca Rame, Rita Levi Montalcini, Zygmunt Bauman, Josè Saramago, fino all’affermazione di un lavoro che nel tempo ha incluso editoria, pubblicità, moda e reportage.
“Dopo l’avvento dei social – racconta Guido Harari – ho notato che le nuove generazioni volevano capire il mio percorso e come fosse stato possibile realizzarlo dall’Italia o in Italia. C’è stato un rinnovato interesse per la mia produzione ho pensato di dover condividere queste esperienze perché diventava sempre più prezioso il corpus delle testimonianze di prima mano che avevo custodito. Così ho pensato di rivedere il mio catalogo, renderlo disponibile e ridare nuova luce a quello che ho accumulato”.
Uno degli approcci che gli sono piaciuti di più di questo nuovo capitolo “revisionista” del suo archivio è quello di staccarsi dall’idea generale che si ha della sua fotografia legata al mondo del rock. “Nella mia vita ho sempre voluto incontrare registi, scrittori, designer seguendo i miei interessi e passioni. E quindi ho ripreso queste foto, le ho a volte cambiate nei filtri ed esposizioni perché potessero risultare rilevanti oggi, le ho riviste con occhi diversi. E le abbiamo scelte per il libro e la mostra”.
Nei periodi d’oro della fotografia della canzone pop c’erano i direttori con cui si stabiliva intesa e voglia di sperimentare. Si puntava, decenni fa, a colpire un pubblico non generalista che solitamente teneva molto all’immagine dell’artista. “Ho dimostrato che anche l’assurdo si può fare – racconta oggi Harari – ma sono stato anche viziato da un’epoca in cui tutto sembrava semplice. Quando poi ho iniziato a provare insofferenza per il rituale del ritratto, negli anni Duemila, e mi sono stufato di artisti e manager, ho cambiato vita e non ho più scattato per anni”. Un campanello d’allarme c’era stato quando qualcuno, su un set fotografico con i Matia Bazar, aveva suggerito l’ennesimo ritratto su fondo bianco: “Con i Matia Bazar “Lì mi sono rifiutato di fare l’ennesima foto uguale, me ne stavo andando perché era uno spreco”.
Gli intoppi però a volte hanno generato capolavori. Così capitò che nonostante un rapporto di fiducia di anni (si erano conosciuti durante un concerto al Palalido di Milano nel 1975 contestatissimo, visto che durò pochi minuti) Lou Reed ebbe atteggiamenti da rockstar capricciosa nel tour italiano con Laurie Anderson, sua storica compagna, nel 2002. La rockstar era nel periodo “pulito”, dopo che si era dedicato alle arti marziali, ma evidentemente qualcosa della vita rock gli era rimasto. Continuava a rimandare qualsiasi posa concordata con Harari. E poi, sul finire del giro, in un backstage di una data, a termine concerto, scattò la magia che ritroviamo sulla copertina del libro: “Quando l’artista ti dice scattiamo dopo lo show vuol dire che non si verificherà. Invece, stranamente, i due tornarono dietro le quinte, davanti al telo che avevo allestito e iniziarono a dimostrarsi complici tra loro e anche generosi con me. Io non davo nessuna istruzione, aspettavo il momento giusto. L’ultimo scatto intimo che riuscì a fare era quello perfetto”.
Stesso copione per le celebri foto di Tom Waits ed Ennio Morricone, con i quali “è bastato un minuto di follia per avere uno scatto memorabile”. Per riunirle tutte nel pregevole volume Rizzoli Lizard ora in libreria, il fotografo ha chiesto al suo editor Simone Romani cento pagine in più. Ed è stata la stessa casa editrice a voler fortemente che accanto alle immagini ci fossero ricordi e descrizioni.
Sempre attento al suo archivio prezioso, Harari, smessa temporaneamente l’attività di fotografo dei live, ha iniziato a organizzare stampe e mostre nella sua galleria, mentre il mondo della musica andava avanti, cambiava miti, e anche modalità. “I concerti una volta erano funzionali a ottenere dei ritratti dei protagonisti nel momento di maggiore espressività, oggi invece le scenografie sovrastano il performer e si è fortunati se lo si riesce a immortalare in una dimensione apprezzabile”.
Con Kate Bush Harari vanta un rapporto di dieci anni nell’arco di tempo dei dischi che oggi definisce “fenomenali” tra il 1982 e il 1993. “Io le facevo le foto ufficiali ma non le copertine che erano affidate al fratello. Ho capito subito che sarebbe stato diverso con lei perché aveva mixato danza, musica e teatro con video concettuali. Una volta mi fulminò dicendomi di non voler essere più l’icona ma fotografata con la verità, come avevo fatto con Lindsay Kemp anni prima. Così andai a Londra, con un po’ di pressione perché fino ad allora avevamo fatto cose bellissime assieme. E ci rinchiudemmo in uno studio dalle otto del mattino fino all’una di notte inventando le cose più semplici in ambientazioni minime. Le foto che ne uscirono la folgorarono, senza trucco con i bigodini, intenta a fare cose normali. Ebbi un grado di fiducia da lei ancora maggiore”.
E poi, in Guido Harari, nacque il desiderio di espandere il proprio raggio d’azione. Alla fine degli anni Novanta provò a mettere assieme tutti gli italiani che secondo lui contavano qualcosa e ritrarli a modo suo. Fernanda Pivano per la letteratura, Michelangelo Pistoletto per l’arte, l’avvocato Gianni Agnelli per l’imprenditoria, rappresentarono le loro categorie nel progetto Italians, che mise il fotografo a confronto con le personalità di fine secolo. “Pensai che nessun giornale mi avrebbe commissionato cento ritratti di italiani celebri, specie in un momento in cui l’immagine dell’Italia era appannata all’estero. E conobbi persone eccezionali. Avevo fotografato Susanna Agnelli e quando l’Avvocato mi ricevette nel suo studio mi gridò mentre ero ancora in corridoio: ‘Harari, mia sorella mi ha raccontato meraviglie, meglio di Newton mi ha detto'”.
Su che persona fosse un gigante del Novecento, Harari ha le idee chiare: “Aveva una curiosità quasi morbosa per il mio lavoro, mi chiedeva di tutto. E allora io gli chiesi di Andy Warhol, che gli aveva fatto un celebre ritratto. E lui mi disse: freddo, abbiamo passato il pomeriggio mostrandoci le cicatrici della nostre operazioni”.
In sintesi, la carriera con i personaggi celebri Harari la descrive così: “Fantastico essere nella storia degli altri quanto gli altri sono nella tua. Quando li fotografo ci sono io, perché l’intenzione dello sguardo che ritraggo è la mia. Ed è per questo che in fin dei conti a me interessano solo e sempre i volti, non l’ambientazione”.