Verità, anche mostruose e scomode, ma pur sempre verità. Giordano Petri, 42 anni, di cui gli ultimi 20 passati alla ribalta della recitazione in cinema, teatro e tv, racconta della sua professione come un grande esercizio di verità. E per un attore da sempre impegnato nel teatro e cinema sociale, questa verità è vitale. Lo abbiamo visto di recente in TV nella serie “Il paradiso delle Signore” targata Rai Uno nei panni di Franco Pascucci, nella serie “In-treatment” come attore e coach di serie al fianco di Saverio Costanzo e come protagonista nelle fiction di successo di Raiuno “Medico in famiglia 9“.
Atri ruoli di successo Giordano li ha avuti nelle fiction televisive “Rosso San Valentino“, “Il Commissario Manara” e su Canale 5 in “Benvenuti a tavola – da nord a sud“, oltre ai vari polizieschi di ultima generazione (“RIS Roma 2“, “Distretto di polizia 10“, “Carabinieri“).
Giordano Petri, nato nel 1979 a Città di Castello in provincia di Perugia ha poi una passione per il teatro a sfondo sociale. Per Matera Capitale della Cultura 2019 ha interpretato il ruolo di Italo Calvino in “Carlo Levi, a sud di Eboli” di Luca Guardabascio, un viaggio culturale attraverso il Meridione.
Come hai iniziato il tuo percorso nella recitazione?
Ho iniziato con la compagnia del liceo classico, a cui mi ero unito per vincere la mia timidezza. Credo inizialmente mi avessero preso per un ruolo di fisicità, ne “Le Nuvole” di Aristofane. Da lì, mi sono divertito e interessato al teatro avvicinandomi a commedie e tragedie greche, avvertendo un certo incoraggiamento tra professori e compagni.
In qualche modo i tuoi studi coincidevano con questa passione?
La passione per il teatro mi deriva dagli studi classici attraverso la storia del teatro e della letteratura greca. Mi affascina il rapporto dell’uomo in relazione alla divinità e l’essere tendenti al superiore, conoscere il limite umano. Ho approfondito questi aspetti con Chiara Mercati , la professoressa che avevo e poi ho deciso di far parte del Teatro Stabile dell’Umbria, e legarmi all’Associazione Culturale Ottobre diretta da Valeria Ciangottini, l’attrice che aveva avuto una parte nel mitico “La Dolce Vita” di Federico Fellini.
Come hai deciso di formarti, successivamente?
Ho fatto parte per due anni intensi di questo teatro stabile e ho tentato selezioni per il Centro sperimentale di cinematografia, a Roma. Tra il 1995 e 1999 io guardavo a tanti attori, sono stato sempre onnivoro, mi avvicinavo a tutti i generi per assimilare quanto più possibile, anche al varietà e alla commedia. Quelli sono stati i miei anni di formazione, dal Trio in tv all’ammirazione per Gigi Proietti. Ma l’illuminazione la ebbi vedendo uno spettacolo con Carmelo Bene. Da lì mi si aprirono tante porte a tanti mondi diversi, al modo di far teatro sociale, di denuncia, al percorso del drammaturgo Giuseppe Vasilicò. I miei miti mi hanno reso persona curiosa che si avvicinava al teatro d’avanguardia come quello di Gabriele Lavia.
Da talento a talento, sei arrivato alla corte del premio Oscar Roberto Benigni.
Sono stato fortunato, incontrai Benigni per fare i casting per il suo Pinocchio. Ne feci 4 di provini con lui, ma erano dei dialoghi, lui intervistava noi piccoli attori sulle abitudini, sulle preferenze, sulle mode. Ascoltava molto, me lo ricordo umano, attento, cordiale ed educatissimo.
Era il 2002, quello fu il suo primo passo dopo l’Oscar a “La vita è bella”. Che clima c’era?
Hai centrato, infatti lui era divertente anche con la goliardia che si respirava sul set ma furono tempi anche difficili. Vicino Terni, a Papigno, c’era la seconda Cinecittà dove girammo, e quel posto chiuse in seguito al flop del botteghino per il film. Ovviamente per me fu un’ottima occasione per osservare come Benigni teneva in mano il suo personaggio, cercavo di imparare dal set, stavo dietro le quinte cercando di spiare.
Da quel film inizia la tua storia con i ruoli oscuri. Che idea ti sei fatto di questo aspetto della tua carriera?
In quel film ero Bastiano, il ragazzo cattivo che porta Benigni e Kim Rossi Stuart sulla cattiva strada. Mi fanno fare il cattivo e creo scompiglio, divergenze nei rapporti. Il limite di un casting director a volte è giudicare un attore dall’apparenza indicativa di una foto. Sai, a volte un’immagine può essere una difesa per non mettersi a nudo. Mi piacerebbe molto interpretare un ruolo simile a me, al Giordano che può portare qualcosa di sé sul set.
Che tipo sei?
Beh, Bastiano andava contro le autorità del tempo, io sono una persona a modo, tranquillo, riflessivo, impulsivo solo contro ignoranza e arroganza. Deve esserci proprio un grande affronto per farmi scattare. Ho un mio baricentro, mia nonna mi diceva: ‘Pensa sempre prima di agire, trova le chiavi giuste per la comprensione’. Un insegnamento che ho fatto mio.
Hai da poco completato un cortometraggio di Rai Cinema e Toscana Film Commission “La Giostra” dove affronti il tema dell’Alzeihimer. C’è un legame tra questa storia e la tua famiglia?
Sì, è un terribile male incontrato attraverso mia nonna, la donna che mi ha cresciuto ed educato e che mi ha dato le basi di quello che sono. Essere stato il suo nipote preferito e venire scambiato per altri negli ultimi tre anni della sua vita mi ha fatto comprendere quanto una degenarazione mentale possa mettere a disagio paziente e affetti. Il carnefice è la malattia, chi la subisce lo fa in totale impotenza.
Che ruolo hai?
Nel film sono il figlio della mamma malata che non riconosce più il passato. La protagonista si ricorda solo dei piccoli flash che la riportano alla sua adolescenza. Siamo tutti toccati da questo lavoro, anche il regista Simone Arrighi sta vivendo questo dramma nella vita reale. Ovviamente per la recitazione ho attinto al mio bagaglio personale, dai file archiviati nella mia anima, ed è stato un lungo lavoro, anche sofferto. Nel film cerco di trovare una familiarità nuova, cerco di convivere con la nuova mamma.
Cosa è il teatro per te?
Mi ha fatto del bene il teatro, mi ci sono avvicinato per superare la mia fragilità e trovare verità su me stesso. Mi ha dato tante risposte e mettendomi a nudo su un palco ho trovato strumenti per quell’equilibrio che racchiude anche dolori e sconfitte. Il teatro per me racchiude elementi che esorcizzano il dolore e le difficoltà del vivere la quotidianità. In questo senso appoggio il teatro come terapia e per ogni impegno sul palco lavoro su me stesso.
Come vivi la molteplicità dei tuoi impegni in diversi mezzi?
L’attore è sempre attore, sia in teatro che in una pubblicità, uso diversi linguaggi che attingono dalla mia esperienza, cerco di trovare elementi, connotazioni che mi permettono di muovermi onestamente. Per quanto possa sembrare strano, l’attore deve essere non filtrato, bisogna sempre obbedire a una finzione nella recitazione ma la costruzione del personaggio deve essere vera.
E tu come raggiungi questo equilibrio?
C’è sempre un conflitto alla base. Quando leggi il copione devo farmi grandi domande soprattutto su dove non voglio andare. Che nel mio caso è nel luogo comune e nel cliché. Quindi cerco di muovermi attraverso l’introspezione e mi destrutturo, come Francis Bacon in un suo quadro, anche mostruoso, che la verità offre. Ogni volta penso: vado a spogliarmi a nudo allo specchio, poi , mi costa fatica perché poi dopo devo ricostruirmi. Ed è questo l’affascinante del lavoro che faccio.
Cosa ti attrae di più del mezzo teatrale?
Il teatro sociale è la mia dimensione, la denuncia come mezzo per veicolare sensibilizzazione verso un problema. Questo aspetto ricorre nelle mie scelte, quando posso scegliere. Parto solitamente da un’esperienza personale come ispirazione per avvicinarmi alla storia che pone domande. Non c’è solo la commedia costruita a tavolino, la recitazione può far conoscere realtà non omertose e indifferenti. Si può denunciare e arrivare a migliorare la società se si vuole.
Che cosa fai quando non sei sul palco o a girare?
Quando finisco di fare attore mi reputo un operaio, non sono personaggio, non sono assolutamente un divo. Questa condizione può appartenere a chi forse arriva alla professione attraverso altre esperienze. Un divo da reality show che fa l’attore, ad esempio, continua a essere personaggio. Io frequento persone semplici che hanno mantenuto rapporti con me. Di colleghi, credo, solo Marco Bocci e Laura Chiatti.
Cosa vi lega?
Siamo partiti dall’Umbria assieme e abbiamo mantenuto la nostra amicizia anche dopo essere diventati attori affermati. Questo significa che non è impossibile avere amici nel mondo dello spettacolo però a volte diventa monotono e ripetitivo. Si finisce sempre per parlare di “io, io…”. Senza confronti e opinioni, tipico dell’attore egoreferenziato mentre io vado alla sagra della castagna e preferisco la scampagnata alle feste. Mi piace essere amico consapevole e rispettoso.
Cosa ti aspetta nel futuro lavorativo?
A breve inizia la preparazione de “La Grazia” con la regia di Luca Guardabascio, con cui ho fondato il Manifesto del cinema sociale, e con cui avevo lavorato in “Credo in un solo padre”. Promuoviamo tematiche e sensibilizzazioni di tante verità che sono dimenticate. Per questo progetto gireremo a febbraio 2022, in Calabria ad Altomonte in provincia di Cosenza. Si racconta del ragazzo che fa passaggio di sesso, si chiama Moreno da uomo e diventa Grazia da donna. Una storia vera, di abusi, raccolta con testimonianze di psicologi. Ma alla fine è una storia di rinascita di chi trova la forza.
Si ringrazia BRUNO CANTARELLA per le foto di book di Giordano Petri; MICHELE CELLI per le foto di scena tratte da “LA GIOSTRA” di Simone Arrighi e Vincenzo La Gioia