3 Novembre 2024

Gabriele Zago con “Yana Amazonas” documenta il rapporto uomo-natura

La scelta di intraprendere il viaggio tra l'Ecuador e il Perù non si limita a un’esperienza di documentazione antropologica, ma si traduce in una profonda esplorazione estetica e simbolica del contrasto tra l'ambiente incontaminato e la distruzione incombente.

3 Novembre 2024

Gabriele Zago con “Yana Amazonas” documenta il rapporto uomo-natura

La scelta di intraprendere il viaggio tra l'Ecuador e il Perù non si limita a un’esperienza di documentazione antropologica, ma si traduce in una profonda esplorazione estetica e simbolica del contrasto tra l'ambiente incontaminato e la distruzione incombente.

3 Novembre 2024

Gabriele Zago con “Yana Amazonas” documenta il rapporto uomo-natura

La scelta di intraprendere il viaggio tra l'Ecuador e il Perù non si limita a un’esperienza di documentazione antropologica, ma si traduce in una profonda esplorazione estetica e simbolica del contrasto tra l'ambiente incontaminato e la distruzione incombente.

La Galleria Pirra (C.so Vittorio Emanuele II, 82 10121 Torino) presenta in questi giorni della Torino Art Week 2024 il progetto fotografico di Gabriele Zago Yana Amazonas – quindici opere, ritratti e paesaggi, di tirature e formati diversi (il più grande 100 x 143 cm) – che affronta un tema di straordinaria rilevanza globale: la complessa relazione tra l’uomo e la natura nella regione amazzonica, sotto la crescente minaccia delle compagnie petrolifere.

Gabriele Zago dice: “Yana non è solo un progetto fotografico. È un viaggio, un’emozione, un tentativo di capire la Foresta Amazzonica, territorio che ho avuto il privilegio di esplorare tra Ecuador e Perù nel luglio del 2023.
È la più grande foresta pluviale del Pianeta e l’ho capito fin dal primo momento quando, dopo un lungo viaggio di tre giorni su una piccola ed instabile canoa di legno, ho finalmente posato il mio piede su un argine fangoso del fiume Shiripuno: il caldo, l’umidità, la mancanza di riferimenti, l’ostilità del luogo, la vegetazione impenetrabile, la grandiosità della natura ti fanno sentire minuscolo. Eppure, volevo capire come un essere così piccolo, l’uomo, sia stato in grado in pochi anni di rendere questo posto instabile, vulnerabile, a rischio. L’unico modo per farlo era conoscere chi questo processo lo sta vivendo purtroppo ormai da troppi anni, gli indigeni dell’Amazzonia”.

La scelta di Gabriele Zago di intraprendere questo viaggio tra l’Ecuador e il Perù nell’estate 2023 non si limita a un’esperienza di documentazione antropologica, ma si traduce in una profonda esplorazione estetica e simbolica del contrasto tra l’ambiente incontaminato e la distruzione incombente. Come spiega l’artista: «Ogni immagine è l’insieme di decine di differenti scatti assemblati meticolosamente per comporre l’immagine perfetta della foresta, uno sforzo ottimistico verso il ritorno ad una natura inviolata e “bella”». Ma questa non è la realtà. Il colore è ottenebrato da un velo nero che invade l’ambiente, lo spegne e lo avvelena. L’uso del nero come elemento pervasivo nel lavoro di Zago diventa una metafora potente: il petrolio, rappresentazione fisica del progresso industriale, diviene la forza oscura che avvolge e contamina il mondo naturale e i suoi abitanti. La minaccia ai popoli indigeni dell’Amazzonia emerge come un altro filo conduttore centrale nel progetto. La tecnica adottata di “unire” diversi scatti in una composizione finale riflette la frammentazione dell’esperienza vissuta dai popoli indigeni, divisi tra la loro connessione ancestrale con la foresta e l’intrusione esterna.

L’artista racconta: “Figure per me leggendarie, quasi mitologiche, che finalmente potevo incontrare. Curiosi, composti e incredibilmente accoglienti, sono la Comunità dei Bameno. Canti, abiti coloratissimi e piume mi accolgono tra gli alberi lungo la riva del fiume; gli uomini con le loro lance da caccia e le donne con i loro accesi decori e con i loro bambini.

Inizio ad entrare nella loro vita, a mangiare con loro, ad accompagnarli durante la caccia, a giocare con i bambini, ad assistere ai loro rituali ancestrali e, ovviamente, a fotografarli. A fissare la loro immagine, le loro emozioni e speranze nella mia macchina fotografica. Mi rendo conto che il fascino e l’incantesimo del primo incontro lasciano però posto alla dura realtà. Incontro Penti il capo tribù, un uomo di piccola statura e lunghi capelli. Da lui sento parole dure, tristi, uno sfogo pieno di voglia di combattere, mai rassegnato. Stanno combattendo. Devono lottare per salvare il loro territorio, la loro foresta e i loro animali. Tutto intorno a loro sta sparendo. Tutto è avvelenato. Ma cosa sta succedendo in un posto così isolato ed irraggiungibile? Sapevo già tutto prima di arrivare, ma sentire quelle parole dalle sue labbra fa capire che tutto è vero, che tutto è devastante. L’avidità dell’uomo, la globalizzazione, lo sfruttamento del territorio si è impossessata anche di questi luoghi, di questi popoli incontaminati. La loro unica colpa? Vivere su enormi giacimenti di petrolio.

Da questi scatti nasce Yana, un progetto che vuole mostrare la relazione tra Uomo e Natura, tra “naturale” ed “artificiale”. La bellezza in questo progetto deve inevitabilmente fare i conti con l’”oscuro”, con la minaccia e la precarietà. Si tratta di istantanee precarie e momentanee destinate a sparire o di quinte teatrali eterne dove l’uomo e gli animali troveranno sempre il loro posto?

Ogni immagine è l’insieme di decine di differenti scatti assemblati meticolosamente per comporre l’immagine perfetta della foresta, uno sforzo ottimistico verso il ritorno ad una natura inviolata e “bella”. È una battaglia che il popolo amazzonico deve vincere.

Ma questa purtroppo non è ancora la realtà. Il colore è ottenebrato da un velo nero che invade l’ambiente, lo spegne e lo avvelena. Lo rende buio e di difficile lettura. Il nero come rappresentazione del petrolio e della condizione ostile che si riversa su chi vive nella Foresta”.

Le cromature, ordinatamente geometriche in una natura sregolata e caotica, che attraversano le fotografie di Zago e che rappresentano le pipeline che tagliano il paesaggio e le vite di queste comunità, fungono da simbolo ambivalente: pur rappresentando il progresso scintillante, sono anche segno di distruzione. Anche in Yana, ciò che appare prezioso e scintillante è, in realtà, una minaccia concreta e opprimente. Zago non si limita alla denuncia visiva: il suo coinvolgimento personale con le comunità locali, con i loro rituali e i loro racconti lo rende un interprete autentico delle dinamiche di resistenza culturale. La questione della sovrapposizione tra minoranze etniche e ricchezze naturali è un tema che attraversa gran parte della storia del fotogiornalismo, ma l’approccio di Zago non è meramente documentaristico. Ogni fotografia è un’elaborazione simbolica in cui la minaccia industriale e la bellezza naturale convivono, generando una tensione, visiva e concettuale, che ci costringe a riflettere non solo sulla devastazione ecologica, ma anche sulla resilienza delle culture indigene. La fotografia, in questo contesto, diventa una forma di resistenza, un mezzo per denunciare e, allo stesso tempo, per onorare la profondità spirituale di chi continua a difendere la propria terra.

Yana, riferisce Gabriele Zago, è un’antica parola di origine quechua, la lingua parlata dagli Inca nel loro vasto impero ed estintasi con la colonizzazione spagnola. Sopravvissuto nei secoli, il nome Yana è ancora popolare, ha un significato ricco di sfumature, ma in generale è associato all’armonia e alla prosperità.

Su quello che ha visto Gabriele Zago puntualizza: “Improvvisamente l’immagine viene invasa e rovinata, quasi a nascondere la sua bellezza, da linee cromate, stranamente ordinatamente geometriche in una natura sregolata e caotica. Sono le tubature delle condutture del petrolio che, dalle stazioni di estrazione, conducono ai grandi fiumi dove il petrolio viene poi convogliato in grossi camion cromati, puliti e lucenti. Ne ho visti tanti, caricati su chiatte in legno scorrere lenti e lucenti lungo i fiumi.

Queste linee sembrano lucenti, ricche. Sembrano quasi impreziosire l’immagine. Ma non è così. È una rete minacciosa che coinvolge tutti i soggetti del mio progetto, che li collega ed unisce in un destino che per molti anni sembrava segnato. Ma qualcosa di importante sta oggi accadendo, le popolazioni indigene stanno combattendo, stanno reagendo al destino che noi gli abbiamo imposto. La lotta è ancora lunga, ma la Foresta è la Foresta.

Yana è un’antica parola indigena di origine quechua, il cui significato varia in base alla regione in cui viene utilizzata. Di origine Inca, ha un significato ricco e vario. In quechua antico, Yana può anche essere collegato al “nero”, all’oscuro, alla notte. Tuttavia, è anche associato alla bellezza e alla luce, rendendolo un termine versatile e ricco di sfumature. Nella cultura quechua l’oscurità

non è necessariamente negativa, ma rappresenta la fertilità della terra e la protezione della notte dai pericoli del mondo pertanto può essere collegato alla prosperità e alla crescita, poiché in molte comunità indigene le persone con questo nome sono considerate portatrici di buona fortuna e abbondanza. Il nome Yana acquisisce pertanto un significato più profondo, legato alla connessione con la natura e all’armonia con l’ambiente.

Durante la colonizzazione spagnola la lingua quechua venne soppressa ma il termine Yana è sopravvissuto nei secoli e rimane ancora oggi popolare. Per questo motivo questo nome è diventato un simbolo di resistenza e orgoglio per le comunità indigene che cercano di preservare e promuovere le proprie tradizioni e lingue”.

La mostra sarà visitabile fino al 24 novembre 2024.

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