Remo Bianco. Le impronte della memorie, a cura di Lorella Giudici con la collaborazione della Fondazione Remo Bianco, presenta oltre 80 opere dell’artista, ripercorrendo le fasi della sua ricerca e rappresentandone i percorsi di vita e di lavoro, intrecciati in un flusso di straordinaria energia creativa. Il tutto al Museo del Novecento di Milano, l’istituzione che continua l’attività di ricerca sulla Seconda metà del Novecento attraverso la presentazione di alcuni dei suoi protagonisti, con un’attenzione a coloro che hanno lavorato, con felici esiti sperimentali, nel territorio milanese.
Nella Milano del boom economico il giovane Remo Bianco conosce e frequenta il grande pittore Filippo de Pisis e il suo entourage.
La sua sarà una vita da “ricercatore solitario”, come si era autodefinito, sempre pronto a sperimentare idee nuove, frutto della sua fervida fantasia.
Questa capacità di inventare e seguire percorsi nuovi l’hanno reso un artista molto peculiare per quei tempi, propositore di prospettive nuove, con un approccio divertito e sempre attento ai materiali e alle intuizioni espressive.
In mostra sono esposte tutte le tipologie di opere prodotte nell’arco di un quarantennio: dalle prime Impronte, calchi in gesso, cartone pressato o gomma ricavate dai segni lasciati, da un’automobile sull’asfalto, o da tracce di oggetti comuni, giocattoli o attrezzi ai Sacchettini – Testimonianze, realizzati assemblando oggetti di poco valore – monete, conchiglie, piccoli giocattoli, frammenti – in sacchetti di plastica fissati su legno in una disposizione regolare e appesi come un quadro tradizionale. Dalle opere tridimensionali – i 3D – in materiale plastico trasparente o vetro e poi su legno, lamiera e plexiglas colorato, dove l’immagine è la combinazione di figure poste in successione su piani differenti, che ne esaltano la profondità alla serie dei Collages, con un effetto combinatorio di immagini, realizzate con la tecnica del dripping su un unico piano, di tela, carta o stoffa alle opere di “Arte sovrastrutturale” che, con un atto di “appropriazione artistica” di oggetti, cose e persone, esprimono l’esigenza di fissare nella memoria in modo indelebile ricordi e realtà alle Sculture neve, teatrini poetici i cui protagonisti sono oggetti comuni tratti dal mondo dell’infanzia, della natura o della vita quotidiana ricoperti di neve artificiale e disposti in teche trasparenti che trasportano lo spettatore in una dimensione incantata e senza tempo. Sino ai Quadri parlanti, esposti per la prima volta nel 1974, tele in alcuni casi non lavorate in cotone bianco o nero, in altre impressionate con fotografie, sul cui retro sono posizionati degli amplificatori che, all’avvicinarsi dello spettatore, si attivano emettendo suoni o frasi registrate dall’artista. Il più noto è “Scusi signore…” dove Bianco si auto-ritrae con il dito puntato, immagine già utilizzata nel 1965 quando, in occasione di una personale alla Galleria del Naviglio, la foto compariva su tutti i tram milanesi a coinvolgere l’intera comunità.
L’esposizione al Museo del Novecento ripercorre il ricco e sorprendente percorso di Remo Bianco esplorando proprio il tema della memoria, attraverso le sue opere e tramite una esaustiva documentazione d’archivio: cataloghi, manifesti, articoli e fotografie d’epoca.
Il catalogo della mostra, edito da Silvana, è corredato dai testi di Lorella Giudici ed Elisa Camesasca, dagli apparati a cura di Gabriella Passerini e Alberto Vincenzoni e riporta un’interessante intervista a Marina Abramović del 2012, riguardo al lavoro di Remo Bianco, conosciuto nel 1977.
Vi riassiumiamo alcuni stralci di questo interessante documento:
“Ho incontrato Remo Bianco credo nel 1977, a Ferrara di fronte al Palazzo dei Diamanti e noi… eravamo così poveri, io realizzavo a maglia dei golf. Eravamo appena arrivati da Orgosolo, avevamo parcheggiato la macchina di fronte al Palazzo dei Diamanti e avevamo dormito in macchina[…]. All’interno abbiamo fatto una performance. E allora Remo arrivò e ci parlò e siamo diventati amici. Ci portò ogni giorno a pranzo. In quei giorni abbiamo mangiato il miglior cibo di sempre e mi ricordo che non avevamo bisogno di pagare perché tutti i ristoranti lo conoscevano e, sai come si faceva allora, dava qualche sua opera in cambio del pranzo. Al tempo aveva tre studi pieni di opere in diversi posti a Milano, non ricordo dove esattamente, la mia memoria non è buonissima. Mi ricordo che mi piacquero moltissimo i suoi Quadri Parlanti e le sue Sculture calde.
Era molto competente sulla storia dell’arte italiana e sulla filosofia e abbiamo avuto bellissime conversazioni. Era davvero un’amicizia tra due giovani artisti e qualcuno di affermato. Gli piaceva il nostro lavoro. Lui capiva il nostro lavoro. La sua generazione di artisti non pensava fosse arte al quel tempo. Gli altri, al contrario, erano molto arroganti. Dicevano “questa è arte?”, “ma questo non è niente”, “sono c…e”. Lui invece non lo pensava. Capiva che non facevamo compromessi. E questo per noi era molto importante perchè credevamo in quello che stavamo facendo […]. Siamo rimasti in contatto fino a quando, negli anni ottanta, non siamo partiti per l’Australia. Poi non abbiamo avuto più modo di sentirci. E’ durato per circa quattro o cinque anni. Era molto gentile. Ciò che era veramente interessante nella sua come dire… “vita”, era il fatto che fosse qualcosa che non poteva definirsi nè propriamente Arte Povera, ma neanche espressionista, era molte cose differenti. Io penso fosse troppo in anticipo per il suo tempo. Sì, era molte cose diverse, quindi le persone non potevano collocarlo da nessuna parte. […]. Ma lui sperimentava veramente e questo è il motivo per cui era un “personaggio” importante, interessante. Se non sperimenti, non puoi conoscere nuovi territori. Ma se sperimenti, puoi anche sbagliare. Lui non aveva paura di sbagliare o di cambiare da un mezzo espressivo all’altro. E questo è il motivo per cui lo spirito di Remo Bianco era straordinario per me. Ecco perché mi piaceva”.
ESTRATTO di Intervista a Marina Abramović a cura della Fondazione Remo Bianco