Come fa un genere musicale a contenere le risposte giuste per tante generazioni con cui viene in contatto? Succede da decenni col rock e lo si comprende bene in “Rock is the answer – Le risposte della musica alle questioni della vita” (Marsilio Editori), il nuovo libro di Massimo Cotto, giornalista , DJ radiofonico, autore televisivo e teatrale, presentatore e direttore artistico di numerosi festival e rassegne. Cotto ggi è una delle voci più note di Virgin Radio, e nel testo racconta il mondo del rock attraverso le parole di oltre 150 artisti, da Mick Jagger a Patti Smith, da David Bowie a Chris Cornell, raccolte nel corso degli anni durante interviste ed incontri
Tra voci sopra le righe e divertenti aneddoti, meditazioni profonde e consigli quotidiani, a ogni mese dell’anno si associa una riflessione che nasce da un brano cult e che introduce una parola chiave per ciascun giorno. Dall’amore (tema di gennaio) alla ricerca di una risposta (tema di dicembre), passando per il futuro (tema di giugno), ogni riflessione è accompagnata da una canzone che fa guida all’ascolto e dà una o più risposte che gli artisti hanno voluto consegnare a Massimo Cotto durante incontri e colloqui. Demoni e ispirazioni, vizi e virtù rivivono in uno zibaldone di pensieri che diventa al tempo stesso un motore per le ricerche personali e il prodotto di un nuovo e mai banale sguardo sul mondo.
Il suo nuovo libro si chiama “Rock is the Answer – Le risposte della musica alle questioni della vita”. Ogni risposta presuppone che sia una domanda e quindi le vorrei chiedere se nel corso degli anni le domande che poniamo al rock sono cambiate e se sì in che modo, oppure come ha detto David Bowie le domande sono le stesse me è cambiata la prospettiva?
«Le domande sono cambiate nel senso che un tempo la domanda era: “Il rock può cambiare il mondo?” Ed oggi abbiamo avuto la risposta e cioè che non può più cambiare il mondo, almeno non nelle dimensioni che noi abbiamo sempre immaginato e sperato negli anni ‘60, per coloro che hanno avuto la fortuna di vivere quel decennio, quindi l’utopia di Woodstock la rivoluzione psichedelica, l’idea che il rock potesse diventare la base di una nuova società. Oggi sappiamo che tutto questo non è più possibile. È cambiata la scala, si agisce su livelli individuali quindi la domanda corretta che noi possiamo fare è: “Il rock può ancora cambiare le nostre vite?” Secondo me la risposta è si! La grandezza del rock, come dell’arte in generale, ci insegna che una risposta genera un’altra domanda. Io non sono alla ricerca di una risposta definitiva, se esistesse un libro con tutte le risposte della mia esistenza io non lo comprerei altrimenti che cosa vivo a fare? Proviamo a chiedere ad un artista se voglia scrivere una canzone perfetta, lui risponderebbe di no. Il bello del rock è che ti da gli spunti per andare avanti e risolvere i tuoi piccoli malanni quotidiani per poi ripartire alla ricerca di qualcos’altro.»
Le scale delle quali parlava prima, quelle scale citate anche nel libro “Stairway to heaven” conducono ad un miglioramento individuale, non collettivo.” L’uso eccessivo del gruppo, del collettivo, ci sta portando ad una perdita di identita’, ci sta portando alla depersonalizzazione. Sempre nel libro ho letto “il rock può creare aggregazione lavorando sull’individuo e non più sul gruppo.” Quindi il rock può ricreare l’identità che stiamo perdendo e se sì in che modo?
«Secondo me si, perché i musicisti sono persone fragili e vulnerabili così come lo siamo noi, solo che loro hanno un momento nel quale possono esercitare una funzione diversa, di trascinatore di folle, che è il momento nel quale sono sul palcoscenico ma poi, quando scendono, ricominciano a vivere gli stessi malanni, le stesse debolezze del quotidiano. Loro sono in grado di lavorare singolarmente sulle nostre piccole debolezze quindi farci capire in quello che noi proviamo tutti i giorni come il senso di inadeguatezza, la difficoltà di attraversare particolari momenti, la disillusione che sono tutte cose che loro hanno affrontato più volte ed hanno provato a superarle attraverso la musica. Quindi credo che lavorando sull’individuo il rock e l’arte in generale possano comunque costruire un buon futuro.»
Ha intervistato migliaia di artisti, ma con chi si è reso conto che a parlare era la persona e non l’artista?
«È una bellissima domanda, perchè è esattamente il fine di tutte le mie interviste. Io non sono interessato al gossip, neanche interessato ad entrare troppo nel dettaglio musicale. L’arte, la musica, il rock è comunicazione ed io sono interessato a capire la persona dietro il personaggio, la persona dietro l’artista e quindi momenti in cui l’artista si confessa, comincia a parlare di se stesso quasi dimenticandosi che davanti ha un giornalista a me fa capire che sono riuscito a conquistare la sua fiducia e forse può nascere qualcosa di importante. Pensa ad esempio ad Elton John, Joe Cocker a Eric Clapton che hanno sfruttato uno spunto che ho dato loro per parlare della loro odissea nella droga e nell’alcol e lo hanno fatto con naturalezza, ricordo Elton John che piangeva mentre raccontava. Ricordo Alda Merini che si commuoveva dicendo cose meravigliose pensando alle figlie o a suo marito per il quale lei dice di aver scritto tutte le sue poesie. Sono momenti nei quali capisci la fortuna che hai avuto nel fare questo lavoro e anche la grandezza delle persone e non soltanto dell’artista da un punto di vista professionale e musicale.»
Tra i tanti artisti che ha intervistato ha chiesto a Noel Gallagher quali canzoni avrebbe voluto scrivere, quindi le chiedo quale artista avrebbe voluto intervistare e perchè?
«Mi sarebbe piaciuto e mi piacerebbe intervistare le tre “J” Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison perché sono sicuro che comunque mi divertirei tantissimo. C’è una persona che non ho mai intervistato e non ho mai voluto intervistare che è Bruce Springsteen perchè lui mi ha cambiato la vita ed io non volevo correre rischi di beccarlo nell’unico giorno che era arrabbiato perché ad esempio aveva litigato con la moglie oppure aveva bucato o erano entrati i ladri in casa e quindi deve rimanere lì come mia lanterna, come mia stella polare, come mio punto di riferimento. Ti invito ad immaginare la faccia del discografico quando mi ha chiesto se volessi incontrarlo e gli ho risposto di no. Davvero abbiamo bisogno di stelle polari e di bussole come per me Springsteen che mi ha fatto capire la potenza dell’arte e della musica.»
Hai scritto “mi è capitato di parlare con dei ragazzi che volevano raggiungere il successo.” Dove c’era qualcosa che non funzionava lo diceva e le rispondevano “Eh ma a me è venuta cosi’.” Crede sia anche per questo atteggiamento che molti ragazzi poi non riescono ad arrivare al successo?
«Sì assolutamente, il successo è una conseguenza del lavoro che si fa più l’aggiunta di quella cosa che inizia per “c” e finisce per “ulo” (ride) quindi lavorare e faticare sicuramente è una condizione necessaria ma non sufficiente per avere successo però in ogni modo i ragazzi devono capire che l’ispirazione è importante per il 10% e l’applicazione per il 90%. Bisogna faticare perché l’ispirazione e l’intuizione sono il profumo della torta ma non la torta.»
E parlando di ragazzi il discorso non può che non andare ad Area Sanremo che la vedrà essere presente in qualità di direttore artistico.
«Io sono molto legato a questo concorso perché è un po’ il sogno americano. I ragazzi che arrivano tramite Sanremo Giovani, quando arrivano, sono già strutturati perché hanno già una casa discografica, una major. Quelli che arrivano ad Area Sanremo non hanno quasi mai nessuno quindi è chiaro che sono meno preparati rispetto agli altri ma hanno queste potenzialità inespresse che quando li vedi pensi a quanto di bello e importante potrebbe venirne fuori e quando accade che tu hai la fortuna e possibilità di lanciare le carriere di qualcuno di loro come è successo a me in passato con Arisa, Noemi, Mahmood o Simona Molinari. Ma poi ci sono altri che sono passati da Area Sanremo, quando non c’ero io, come Tiziano Ferro, Anna Tatangelo o Renzo Rubino, persone che hanno costruito una buona carriera. Quest’anno ascolterò i ragazzi nella seconda ed ultima fase e l’unica cosa che mi aspetto è di vedere ragazzi che non fingono e che cercano di essere se stessi e che non vogliano dimostrare di essere bravi. A me non interessa che siano bravi, mi interessa che siano unici.»
Mi piace abbinare la musica alla cucina perché ho sempre pensato che ad un piatto, così come si abbina un vino, possa essere abbinata una canzone e quindi le chiedo se fosse un piatto che piatto sarebbe e perchè e quale canzone abbinerebbe?
«(Ride) Bella domanda. La risposta più immediata che mi viene, visto che io amo il polpettone, è una canzone di Meat Loaf “Bat out of Hell”, però in realtà io amo la carne cruda, da buon piemontese, o all’albese quindi a fette o battuta che si differenzia dalla tartare perché sulla tartare ci metti sopra una valanga di roba come capperi, sale, uovo invece la carne cruda è carne cruda, sopra al massimo ci metti un pò d’olio e un pò di limone e quindi per me la musica è questa, ci deve essere la concretezza e l’essenzialità ecco perchè mi piacciono le canzoni che puoi anche soltanto riprodurre con solo la chitarra oppure con un pianoforte. Mi piace anche l’apocalisse come anche il deserto di suoni e penso che in assoluto se dovessi dire la canzone più bella che si mai stata scritta direi che è una canzone di Tim Buckley, padre di Jeff, che si chiama “Song to the Siren”.»
Intervista a cura di Nicola Di Dio