Lo dice con disinvoltura, ma poi ride della citazione colta: “Penso al poeta-vate di Ugo Foscolo”, quando parla di sé, Davide Brienza, uno dei talenti più promettenti della nuova scena di cantautori rock a Milano.
Origine lucana, 21 anni ad agosto di quest’anno, scrive musica da quando aveva 16 anni, “da quando ero a Rionero in provincia di Potenza e la mia esperienza era davvero limitata a quello che vedevo in paese”, dice con un misto di orgoglio e tenerezza oggi, che di anni ne sono passati solo 5 da quei momenti, che sembrano un’eternità. Abbiamo iniziato a seguire Brienza quando si è presentato poco più di un anno fa al Festival di San NoLo, scelto dall’allora team della direzione artistica (Riccardo Poli, Silvia Rudel, Maurizio Porcu, Alessandro Longoni) . C’era qualcosa di autenticamente folk-rock nella sua proposta, ci eravamo detti.
Davide ha mosso i primi passi dalla Basilicata “e quando ho iniziato a suonare fuori regione mi sembrava stranissimo i primi tempi”. Se lo volete vedere già maturato per via della grande gavetta che sta facendo, anche all’estero, andate al Bar Gluck della mitica via Gluck a Milano il 20 luglio. Terrà un concerto acustico aperto a tutti.
Davide, artista lucano classe 1997. La tua bio inizia così. Ma come ti sei appassionato all’arte?
Penso sia stato grazie alla passione di mio padre, già a 12 anni ho iniziato a realizzare che la musica sarebbe stata la mia vita. Ho iniziato a studiare chitarra, armonica a bocca, basso e cigar box guitar.
Che tipo di musica facevi agli esordi?
Passavo dall’elettrico all’acustico, ma sempre vicino alle tematiche sociali, mi piaceva collaborare con eventi e associazioni culturali. Anche in Basilicata non mi sono mai fermato, ho sempre organizzato cose legate alla musica perché per me questo mondo era soprattutto condivisione.
Lo pensi ancora?
Certo, anzi, è un’idea rafforzata dalle belle esperienze che suonare in giro mi ha permesso di fare. Ai “Glory Days in Rimini” ho suonato accanto ad artisti già lanciati come Hans Ludvigsson, Vini Lopez, Lorenzo Semprini, poi con la band di Ligabue, come Robby Pellatti e Antonio Rigo Righetti.
Così giovane e già hai incassato pure i complimenti di Fabio Concato.
Sì, ha speso belle parola durante un’edizione del Vulcanica Live Festival. Credo si sentano i miei ascolti in quello che faccio, che vanno dal folk al country per toccare anche lo spiritual blues.
Come si articola la giornata di un musicista emergente, oggi?
C’è molto da fare per promuovere la tua proposta, per incontrare persone, per trovare la dimensione giusta per comporre. Frequento il CPM Music Institute coordinato da Franco Mussida della PFM e mi sono lanciato come direttore artistico in alcuni locali di Milano e dintorni, il che assorbe più tempo di quello che prevedevo. Ma è bellissimo perché mi mette in contatto con tanti musicisti con voglia di emergere.
Ti abbiamo visto di recente al Baretto del Leoncavallo con la tua band. Non sei quindi più solista?
Ci ho messo un anno e mezzo per radunare le persone giuste. Alla chitarra e alla voce Damiano Renna;
al basso Alessandro Eretta; alla batteria Mario Gallus. Ho una sezione ritmica tutta sarda che è già tosta all’origine. Con la seconda chitarra di Damiano Renna invece, sintonia perfetta, un tarantino affidabile anche quando ci esibiamo da soli in acustico.
Dal vivo evochi i tuoi riferimenti musicali. Come li approcci?
Un brano o un pezzo d’arte in generale diventa più personale anche solo guardandolo. Il mio presupposto è che la musica è condivisione, prendo delle cose che hanno creato il mio mondo e che sono i pilastri che sostengono la casa che sto costruendo e le propongo alla gente.
Per un cantante che deve affermarsi, è più facile fare cover o è una trappola?
Molte volte è più difficile discostarsi dai tuoi miti, tendi a entrare nel personaggio e provare incosciamente a imitarlo, ma quello è il mondo di qualcun altro. Per questo cerco la personalizzazione, e dal vivo comunque alterno pezzi scritti da me a canzoni conosciute.
Chi ti ha ispirato maggiormente?
Il primo nome è Bruce Springsteen, gli altri è difficile sceglierli. Al secondo posto metto un italiano, Francesco De Gregori, figura importantissima nella mia formazione. Soprattutto per i testi, mi ricordo di averlo sempre ascoltato. Il terzo riferimento potrebbe essere un ragazzo che ascolto per strada o un mio amico che mi ispira.
Sei molto sicuro sul palco, quasi liberatorio. Anche se il tuo repertorio è poco frivolo.
Tendenzialmente tiro fuori un pezzo di me ogni volta dal vivo, a seconda di come ci rapportiamo io e il pubblico ogni sera può andare diversamente. La storia e l’esperienza si stanno formando, la sicurezza emotiva si stabilisce quando c’è sintonia con chi ascolta con curiosità.
Hai un pezzo che si chiama “Milano By Night” che è un omaggio a Milano. L’ambiente influenza la tua scrittura?
Preferisco la campagna alla città ma la vita metropolitana dà degli stimoli diversi, hai un meltin pot in un pentolone dove puoi attingere. Quel pezzo funziona molto dal vivo, vedo che trascina il pubblico, mi fa pensare che proprio ora è il momento per me di vivere questa esperienza. Perché io la vivo la Milano by night nella vita, però quando la canto un po’ assumo quel distacco necessario per riuscire a essere anche critico.
La direzione musicale quindi è tua. Stai preparando incisioni con gli altri membri della band?
La cosa bella è che Mario, Damiano e Alessandro hanno studiato bene la musica, spaziamo tra i generi, facciamo le cose che vogliamo impostandole come preferiamo. Loro hanno ascolti e metodi di composizione diversi, per questo sto attraversando un periodo di sperimentazione che mi porterà a ridefinire molti aspetti della mia musica.
Organizzando anche rassegne per i locali, ti rendi conto di cosa succede sul mercato?
I live sono la spina dorsale dei musicisti emergenti, visto che le vendite di dischi sono limitate. C’è voglia di ascolto sicuramente, ho iniziato a curare il Ghe Pensi Music Club, che trovo molto interessante, nel pub principale di NoLo, il quartiere di Milano dove ho fatto arrivare musicisti, addetti ai lavori di un certo tipo. Sono persone che vogliono una connessione con tutti quelli che la pensano come noi, cioè quelli che vogliono una musica che dica qualcosa.
Invece al momento il trend qual è?
Il disinteresse. Cioè il disimpegno totale, che non deve essere interpretato necessariamente in negativo.
Quindi tutti suonano solo per divertirsi?
Tante volte i miei testi e il mio atteggiamento risultano impegnati e impegnativi. Un ventenne potrebbe vedermi strano. Ma oggi già ci sono tanti casini e chi ascolta non vuole sentirsi appesantito, lo capisco. Non è il filone musicale che mi interessa ma è un dato di fatto che nessuno approfitta del ruolo che riveste come cantante per dire cose impegnate.
Come costruisci le line-up dei festival che curi?
Io chiamo quelli che mi sembrano interessanti, chiamo lo stesso anche i disimpegnati, perché faccio un lavoro responsabilmente. Poi spesso mi trovo a chiacchierare con loro e mi sento in minoranza, ma non è un male.
Spiegaci allora come ci si sente in minoranza a 20 anni!
Sei sempre all’opposizione, costantemente pressocché da solo in alcune argomentazioni, che vuol dire che devo lottare costantemente per farmi sentire. Ma chi vuole raccontare dei cuori infranti in musica ovviamente lo può fare, io voglio raccontare la realtà. Mi è sempre venuto facile essere così, non so se significa essere al’opposizione o non uniformato. La cosa che mi interessa è voler dire che se ci mettiamo assieme possiamo stare meglio, mi sembra che oggi ci sia una deriva verso la lamentela senza rimboccarsi le maniche per poter cambiare le cose.
I due testi che ti rappresentano di più?
Ti dico quelli che ho scritto prima di questo periodo con la band, quando ero sicuramente più puro. Il primo è quello di San NoLo dell’anno scorso, “Il Mare di Solitudine”. Si tratta del primo pezzo che ho scritto a Milano, che sintetizzava un distacco dalla vita che conoscevo, una verbalizzazione di quello che volevo tirar fuori in un periodo difficile e complicato. Mi sono sentito vecchio rispetto a quello che ero realmente, un peso sulle spalle notevole essere arrivato a vivere a Milano da solo. Ma è bello poterlo raccontare.
E il secondo?
Ti direi il primo brano che ho scritto in italiano, “Navigatore” che parla del coraggio di insistere sulla propria strada. Ogni tanto quando prendo la chitarra in mano la osservo, penso che sia la mia armatura, perché tutto nasce da lì, a volte con l’armonica e la voce, ma tutto parte da quelle corde. Mi rendo conto che le cose funzionano quando funzionano nella fase inziale, quando costruisco lo scheletro dei pezzi.
Cosa c’è nel tuo futuro?
Ho accettato la sfida con la mia lingua, voglio scrivere in italiano con la mia band. E vorrei condividere la mia idea di musica con più gente possibile. Non sono nella posizione di insegnare qualcosa da un palco, ma voglio che ci sia un input, un ricordo dopo essermi esibito. Lasciare un segno che magari poi riaffiori a distanza e richiami delle sensazioni…piacevoli.