A distanza di due anni dal successo di Elena, Davide Livermore è tornato a Siracusa per celebrare il teatro greco, portando in scena Coefore ed Eumenidi di Eschilo, le tragedie conclusive dell’Orestea.
Il regista ha scelto di confrontarsi con i drammi della vendetta e della giustizia, focalizzando l’attenzione sulle dinamiche di una società arcaica che si avvia, progressivamente, ad abbracciare le novità di un mondo più giusto e “moderno”.
Nelle Coefore Eschilo racconta il ritorno ad Argo di Oreste, il figlio di Agamennone, l’eroe greco che, rientrato vittorioso in patria dopo la guerra di Troia, trova la morte per mano della moglie Clitemnestra e del suo amante Egisto ( l’assassinio dell’eroe viene raccontato nella tragedia Agamennone che apre la trilogia eschilea). Oreste riabbraccia la sorella Elettra, disperata per la morte del padre e per le sorti della sua città, dove Egisto spadroneggia comportandosi da tiranno con il sostegno di Clitemnestra. L’incontro commovente tra sorella e fratello sulla tomba del padre si trasforma presto in un drammatico progetto di vendetta ai danni della madre adultera e del dispotico amante. E quando si consuma il misfatto, Oreste cade repentinamente nell’angosciante trappola del rimorso, rappresentato dalle Erinni, le antiche divinità che tormentano senza pietà chi si macchia di un delitto di sangue. Nelle Eumenidi il giovane, pur provando a liberarsi da questo terribile giogo, non sembra riuscirci. Persino la fuga e le suppliche al dio Apollo non placano la sete delle insaziabili figlie della Notte. Sarà la dea Atena, garante della giustizia, ad assolvere il giovane figlio di Agamennone, ma solo dopo l’istituzione di un tribunale destinato ad affermare, anche se in una forma ancora embrionale, lo stato di diritto contro un’antica consuetudine, in base alla quale il sangue si lava con altro sangue.
Dal punto di vista storico l’intera trilogia rappresenta il cambiamento in atto nell’Atene del V secolo a.C. Il processo di “democratizzazione” delle istituzioni è ormai giunto alla svolta decisiva: nel 462 a.C., qualche anno prima della messa in scena dell’Orestea, il politico Efialte ridimensiona i poteri dell’Areopago, l’antico tribunale di Atene che, nel tempo, aveva rivestito il ruolo di baluardo difensivo dell’oligarchia cittadina. Questo organo, una volta perse le antiche prerogative politiche, sopravvive con l’esclusivo compito di giudicare i reati di sangue. Pertanto, nel tentativo di sostenere con forza il cambiamento epocale a cui la città di Atene va incontro, Eschilo attribuisce alla dea Atena l’istituzione dell’Areopago, sancendo in tal modo la sacralità di questo tribunale e le sue specifiche peculiarità.
Davide Livermore lega sapientemente le ultime due tragedie dell’Orestea in un continuum drammatico capace di creare suspense e di tenere desta l’attenzione dello spettatore fino alla conclusione della vicenda. Sono soprattutto i dubbi e le preoccupazioni di Elettra e Oreste, interpretati magistralmente da Anna Della Rosa e Giuseppe Sartori, a dominare la scena nella prima parte dello spettacolo. L’odio nutrito nei riguardi della madre e del suo amante non è in grado di accecare completamente le loro facoltà razionali: appaiono entrambi consapevoli e, quindi, profondamente angosciati, per le terribili conseguenze a cui approderanno con il loro progetto funesto. Il coro delle Coefore (“portatrici di libagioni funerarie”) si stringe intorno ai due protagonisti, in un lamentoso canto che fa vibrare la cavea del teatro, trascinando lo spettatore in un’atmosfera inquietante che profuma di morte.
Quando la drammaticità del momento tocca il punto più alto, Livermore stupisce, cambiando improvvisamente registro, dal tragico al grottesco. E così l’ingresso di Clitemnestra, interpretata da Laura Marinoni, diventa uno dei momenti più spettacolari dell’intera messa in scena. L’attrice, conquista il pubblico, dando voce, con equilibrata perizia, alle numerose anime del suo personaggio: madre, moglie, adultera, assassina.
Lo spettacolo appare ricco di suggestioni riconducibili al mondo del cinema: se da un lato prevalgono i riferimenti a Luchino Visconti e alle atmosfere de La caduta degli dei, dall’altro non mancano incursioni nella cinematografia giudiziaria.
Livermore imprime all’azione drammatica una spinta che conferisce movimento alle due tragedie, superando in tal modo la staticità tipica delle opere di Eschilo. Determinante in tal senso è il lavoro operato sul coro, prima quello delle Coefore e successivamente quello delle Eumenidi. Le Erinni (che solo alla fine della seconda tragedia, grazie all’intercessione di Atena, diventeranno Eumenidi, dee benevole) assillano Oreste fino a scatenare terribili allucinazioni, correndo intorno a lui con fare minaccioso, quasi a voler riprodurre un vortice che ricordi visivamente la potenza distruttrice del rimorso. Le dee sono presentate in una chiave volutamente ambigua, che suggerisce la mancanza di una netta separazione tra i sessi. Questa scelta da un lato ricorda un’antica prassi del teatro greco (erano gli uomini a interpretare il ruolo delle donne), dall’altro è probabilmente da intendersi come un monito nei confronti di chi vorrebbe imporre un pensiero unico, rifiutando la diversità in tutte le sue declinazioni. L’assassinio di Clitemnestra ed Egisto avviene in scena, a differenza di quanto accadeva nel teatro greco (la morte di un personaggio era sempre e solo annunciata e mai mostrata): tale scelta favorisce una comprensione più immediata della vicenda, con un pubblico che assiste esterrefatto agli esiti cruenti dell’odio.
Numerosi sono i temi con cui Livermore si confronta, portando in scena le ultime vicissitudini della saga degli Atridi. Al di là delle implicazioni storiche e antropologiche delle opere, Coefore ed Eumenidi offrono allo spettatore l’occasione per interrogarsi su tematiche di carattere universale, attraverso il processo tipico della tragedia fatto di osservazione, assimilazione e catarsi. Il pubblico è trascinato nelle dinamiche malate di una famiglia che non trova pace: la moglie uccide il marito, il figlio uccide la madre, le colpe degli antenati ricadono inesorabilmente sui vivi. La vendetta personale appare come unico strumento di giustizia nella prima tragedia, salvo poi sparire quando l’intervento di un dio mostra una strada alternativa attraverso l’istituzione di un tribunale. Livermore porta in scena l’eterno conflitto fra vecchio e nuovo: le Erinni incarnano una società in cui prevalgono regole primitive e incontrovertibili mentre Atena diventa garante di un senso moderno di giustizia, una vera e propria dea “rottamatrice”. Coefore ed Eumenidi sono anche le tragedie della contrapposizione fra uomo e donna: è più grave uccidere Agamennone, padre ed eroe oppure Clitemnestra, madre, adultera e assassina? La risposta che Eschilo fornisce a riguardo è certo viziata dall’appartenenza a una società patriarcale in cui il ruolo della donna è relegato all’ambiente domestico. E se per una corretta interpretazione del testo eschileo diventa necessaria un’adeguata contestualizzazione storico-sociale, questo, però. non impedisce al regista di cogliere l’occasione per rilanciare una riflessione sulla parità di genere, nella consapevolezza di come, ancora oggi, il rapporto uomo-donna rimanga problematico e irrisolto.
La scenografia è dominata da un enorme “occhio” che, attraverso luci e immagini, accompagna l’intera messa in scena, simboleggiando il costante controllo della divinità sulle vicende umane. Lo stesso Eschilo sottolinea esplicitamente o implicitamente la debolezza dell’uomo, l’ineluttabilità del destino e la necessità di affidarsi costantemente alla volontà degli dei. La tragedia Eumenidi è esplicativa in tal senso: non basterà il giudizio degli uomini a dirimire la controversia fra Oreste e le Erinni, ma sarà comunque determinante il voto della dea Atena.
La conclusione regala agli spettatori un ultimo momento di intensa riflessione: mentre gli attori sono presenti sulla scena, l’occhio che nel corso dello spettacolo ha illuminato l’azione drammatica, suggerendo la subordinazione degli uomini alle divinità, diventa, alla fine, un ponte fra teatro antico e mondo contemporaneo. Attraverso immagini di episodi che hanno segnato tragicamente la storia del nostro paese, il regista intende risvegliare la coscienza degli spettatori, incitando a una lotta costante contro ogni forma di empietà.
Già con Elena di Euripide Livermore aveva dato prova della sua attitudine a rivisitare la tragedia classica in chiave contemporanea, sempre attento a non intaccarne l’essenza. Nell’arduo compito di facilitare la fruizione della tetaro greco il regista si riconferma un maestro. Lo scorso 31 luglio il cast di Coefore-Eumenidi ha salutato per l’ultima volta il suo pubblico, chiudendo una stagione di successi, ancora più significativi, se si considera la complessità della situazione contingente in cui l’allestimento dello spettacolo è maturato.
Testo a cura di Giuseppe Licitra. Foto per gentile concessione di Fondazione Inda