Quello che si vede al Mudec di Milano è necessariamente uno spaccato mozzo dell’opera di Banksy. Ed è anche un’esposizione che mette un po’ a disagio perché non si cammina nei solchi dell’arte di protesta condotti dallo stesso protagonista. Il famigerato e misterioso graffitaro, infatti, non autorizza mostre né tantomeno appoggia iniziative di questo genere.
Che però indubbiamente ne accrescono la fama, del resto non si può camminare per le strade del mondo alla ricerca dei suoi interventi. Che, concordiamo, hanno un senso sicuramente se posizionati e visionati lì dove l’autore ha pensato di metterli e realizzarli. In questo senso ogni opera di Banksy, come dei geniali street artist che l’hanno preceduto, è una site specific a modo suo.
Per questo è bello vedere copertine di dischi di Blur, Royksopp e compagni attaccati alle pareti di un museo, ma è disturbante ammirare un pezzo di muro staccato o i resti dell’hotel in Palestina, a Betlemme, dove Banksy ha aperto nel 2017 il Walled Off Hotel.
Però il ciclo dei topi, con le belle didascalie, e i riferimenti ad altri illustri pop artist precedente (Warhol e Haring in particolare) ci danno una dimensione più completa dell’artista e anche del fenomeno Banksy. Che come tutti i fenomeni dell’era digitale soffre indubbiamente di gigantismo dovuto all’eco assordante e simultanea che ogni novità comporta di questi tempi. E che solo il passare degli anni riuscirà a restituircelo per quello che è: un artista del suo tempo.
A VISUAL PROTEST. The art of Banksy
Al Mudec di Milano fino al 14 aprile 2019.