Dopo Milano al Manzoni, all’Ariston di Sanremo il 7 dicembre, e a febbraio 2019 al Della Pergola di Firenze, Alessandro Preziosi sta portando in giro il suo Van Gogh a teatro.
Una storia che converge in due luoghi artistici, il mondo del famoso pittore e il palcoscenico teatrale, prodotto da Khora.Teatro e TSA Teatro Stabile d’Abruzzo. Lo spettacolo si chiama VINCENT VAN GOGH – L’ODORE ASSORDANTE DEL BIANCO, di Stefano Massini, con Francesco Biscione, Massimo Nicolini, Roberto Manzi, Alessio Genchi, Vincenzo Zampa. Ambientato nel 1884, quando il celebre pittore era rinchiuso nelle stanze bianche del manicomio di Saint Paul, il testo ha vinto il premio Tondelli a Riccione nel 2005.
Le scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, il disegno luci di Valerio Tiberi e Andrea Burgaretta, le musiche Giacomo Vezzani e la supervisione artistica Alessandro Preziosi, rendono questo spettacolo uno dei più intensi ed eleganti di questa stagione, con grande impatto scenico che riprende il “bianco” del titolo, come vedete dalle foto.
La regia di Alessandro Maggi
Le austere e slavate pareti di una stanza del manicomio di Saint Paul. Come può vivere un grande pittore in un luogo dove non c’è altro colore che il bianco? È il 1889 e l’unico desiderio di Vincent è uscire da quelle mura, la sua prima speranza è riposta nell’inaspettata visita del fratello Theo che ha dovuto prendere quattro treni e persino un carretto per andarlo a trovare.
Attraverso l’imprevedibile metafora del temporaneo isolamento di Vincent Van Gogh in manicomio, interpretato da Alessandro Preziosi, lo spettacolo di Khora.teatro in coproduzione con il Teatro Stabile d’Abruzzo, che si avvale della messa in scena di Alessandro Maggi, è una sorta di thriller psicologico attorno al tema della creatività artistica che lascia lo spettatore con il fiato sospeso dall’inizio alla fine.
Il testo vincitore del Premio Tondelli a Riccione Teatro 2005 per la “…scrittura limpida, tesa, di rara immediatezza drammatica, capace di restituire il tormento dei personaggi con feroce immediatezza espressiva” (dalla motivazione della Giuria n.d.r.) firmato da Stefano Massini con la sua drammaturgia asciutta, ma ricca di spunti poetici, offre considerevoli opportunità di riflessione sul rapporto tra le arti e sul ruolo dell’artista nella società contemporanea.
NOTE DI REGIA
Sospensione, labilità, confine. Sono questi i luoghi, accidentati e mobili, suggeriti dalla traiettoria, indotti dallo scavo. Soggetti interni di difficile identificazione, collocati nel complesso meccanismo dell’organicità della mente umana. Offerti e denudati dalla puntuale dinamicità e dalla concretezza del testo, aprono strade a potenziali orizzonti di ricerca. La scrittura di Massini, limpida, squisitamente intrinseca e tagliente, nella sua galoppante tensione narrativa, offre evidentemente la possibilità di questa indagine. Il serrato e
tuttavia andante dialogo tra Van Gogh – internato nel manicomio di Saint Paul de Manson – e suo fratello Theo, propone non soltanto un oggettivo grandangolo sulla vicenda umana dell’artista, ma piuttosto ne rivela uno stadio sommerso.
Lo spettacolo è aperto contrappunto all’incalzante partita dialogica. Sottinteso. Latente. Van Gogh, assoggettato e fortuitamente piegato dalla sua stessa dinamica cerebrale incarnata da Alessandro Preziosi, si lascia vivere già presente al suo disturbo. È nella stanza di un manicomio che ci appare. Nella devastante neutralità di un vuoto. E dunque, è nel dato di fatto che si rivela e si indaga la sua disperazione. Il suo ragionato tentativo di sfuggire all’immutabilità del tempo, all’assenza di colore alla quale è costretto, a quell’irrimediabile strepito perenne di cui è vittima cosciente, all’interno come all’esterno del granitico “castello bianco” e soprattutto al costante dubbio sull’esatta collocazione e consistenza della realtà.
La tangente che segue la messinscena resta dunque sospesa tra il senso del reale e il suo esatto opposto.
In una spaccatura in cui domina la sola logica della sinestesia, nella quale ogni senso è plausibilmente contenitore di sensi altri, modulandone infinite variabili, Van Gogh è significante e significato di sé stesso. Lo scarto emotivo che subisce e da cui è irrimediabilmente dipendente, rappresenta causa ed effetto della sua stessa creazione artistica, non più dissociata dalla singolarità della sua esistenza e lo obbliga a percorrere un sentiero isolato in cui il solo punto fermo resta la plausibilità di una infinita serie di universi possibili nei quali ogni tangibilità può rappresentare il contrario di ciò che è.
La riflessione percorre questa suggestione; non il racconto quindi, ma il divenire e la resa delle infinite varianti conduttrici di un processo creativo filtrate da un’induzione sensoriale il cui respiro, non ultimo, diviene tela su cui restano impresse assenze, mancanze e sorde cecità. Un’evoluzione lucida, condotta nello straziante sforzo di liberarsi e rendersi tangibile, nel volume e nella densità immanente del colore, che smette la sua primaria connotazione e assume i termini di sensi altri e potenzialmente distanti, ponendo in essere una deriva che trova nel suo rovescio la realtà di opera d’arte.
Lo spettacolo accompagna questa non-logica dei sensi, attraverso uno sfiorarsi dei personaggi che fonde il desiderio alla necessità, sviluppando un alternarsi di simmetrie semantiche a dissonanze di cognizione, un conflitto mutabile, ma mai assente.
È in questo campo, su cui si allineano piani paralleli, pur non senza sovrapporsi, che la potenziale oggettività diviene odorare un suono, ascoltare un colore, toccare un sapore, assaggiare un tessuto, vedere un profumo. Un complesso disegno, tuttavia ferocemente semplice, la cui connotazione intrinseca cambia in funzione della distanza da cui lo si guarda o si sceglie di percepirlo. E’ un passaggio aperto alla volta della stretta fessura che permette la visione di un assurdo reso accettabile dalla semplicità espressiva dei sensi che restano qui, nudi e spasmodicamente attivi, esattamente in quel punto della coscienza, attraversato da nient’altro che miliardi e miliardi di neuroni carichi di un unico e solo senso: la vita.
Non più “come siamo fatti”. Ma “di che cosa”.
Foto di scena di Francesca Fago