Quando lo chiamiamo in video, Mauro Porcini ha appena finito di registrare un podcast con uno dei designer italiani più famosi del mondo, Fabio Novembre. Mauro è Senior Vice President e Chief Design Officer di PepsiCo a New York, un nome grande del design internazionale. Tanto che PepsiCo, multinazionale americana di alimenti, snack e bevande quotata al Nasdaq, lo ha voluto come capo del design dei 12 grandi brand che ha in carnet, che vuol dire tanta responsabilità. Porcini è chiamato a supervisionare centinaia di prodotti, per miliardi di valore e soprattutto un numero incalcolabile di consumi e persone che attorno a quei prodotti, vivono. Una storia, la sua, di grande successo di un italiano nel mondo (è originario di Varese) che ci rende orgogliosi.
Mauro, come descriveresti la posizione personale dove sei ora?
Sono nato nel 1975 e nella mia famiglia si è sempre data molta importanza alla cultura e alla passione. I sogni diventano realtà con visione, passione, ottimismo, resilienza, curiosità, gentilezza.
Come è cambiata la tua professione?
Il ruolo che ha nella società il designer è diverso rispetto a quello che ricopriva 20 anni fa quando ho iniziato il mio percorso professionale. Il mio ruolo è cambiato perché sono cambiati i livelli delle produzioni, sono stato uno dei primi nel mondo del design a migrare verso il business.
Avevi solo 27 anni quando nella multinazionale 3M hai iniziato a coordinare il design di prodotto mondiale. Oggi a 45 anni come ti senti?
L’approccio che uso si focalizza sull’essere umano, sull’individuo, i suoi sogni e bisogni. Le idee del design applicato all’industria navigano sempre in equilibrio tra la funzionalità e l’efficienza e il mondo delle emozioni, passioni e amori. Queste ultime sono concetti inefficienti per definizione ma che in qualche modo funzionano se dosati.
In effetti sembra impossibile fare numeri da mass market ascoltando il cuore. Come ci riesci?
Per me la sfida è introdurre quell’approccio che considero proprio del design all’italiana in un contesto di business dove i brand si impongono con logiche di marketing e con alta tecnologia. Se si parla di innovazione con start up e tecnologie nuove, ad esempio, pochi pensano all’idea più romantica del design. Per me significa creare valore, poesia e performance. Il business poi arriva e le tecnologie sono degli abilitatori di qualcos’altro. Per me è l’idea umanistica che serve alla base di ogni creazione, per creare valore per l’individuo, per la società e poi per il pianeta.
Hai anche a cuore la sostenibilità. Come si fa a ragionare in questi termini quando si ha a che fare con un produttore di bevande e alimenti tra i giganti del mondo?
Si deve parlare di sostenibiltà con i prodotti che si ha a disposizione per creare qualcosa che abbia senso per tutti. Deve diventare qualcosa di assolutamente necessario. Sono cauto perché ne sento la responsabilità e conosco gli impatti dei cambiamenti. Ma credo questa sia la strada da perseguire.
Sei in un ambiente dalle dimensioni ciclopiche. Ma che consiglio daresti a un giovane imprenditore che si sente ispirato da te?
Le famose barriere all’entrata nelle aziende che proteggevano il loro business si sono tutte sgretolate. Questo succede per effetto della globalizzazione, per l’utilizzo dei social media e per tutte le nuove tencologie. Chiunque può avere un’idea che con un crowdfunding giusto può trovare un finanziamento. Ci sono delle piattaforme che sono a caccia di idee e quell’aria pionieristica che si respirava anni fa nella Silicon Valley e in parte in Israele e New York, oggi si respira a qualsiasi latitudine.
Cosa conta più di tutto per un’impresa oggi?
Sto per lanciare un libro per Il Saggiatore che ho voluto chiamare “L’età dell’eccellenza“. Partirei da questo concetto: o crei qualcosa di straordinario e metti l’essere umano al centro di tutto, o prima o poi lo farà qualcun altro al posto tuo. Ci sono tantissime persone che in questo momento stanno cercando di entrare nel mercato coi prodotti. Oggi possono farlo e accedono alla visibilità con una comunicazione organizzata da soli, con un raggiungimento al cliente direttamente con l’e-commerce. Gli stessi costi di produzione si abbassano col 3D printing. Bisogna avvicinarsi a queste opportunità, anche perché già Cina e India hanno avuto il ruolo di spingere verso il basso i costi di produzione. E questo facilita molto anche i brand non affermati in un ecosistema in vivace cambiamento.
Specie nel design, voi cercate di interpretare le esigenze dei consumatori. Ma cosa viene prima, la vostra innovazione o la nostra necessità?
Molto difficile da definire questo gioco di intuizione. Credo che viviamo un eterno dialogo con la realtà che ci circonda, i grandi innovatori sono persone recettive che vogliono assorbire tutto quello che accade. Ma sono anche delle persone che hanno formato un punto di vista unico nella realtà e la nutrono di dialogo. Questo ad esempio è un grande pregio della diversity, che oggi è vista come opportunità di chi vuole fare innovazione. Detto questo, abbiamo una prospettiva vincente se siamo in grado di interagire con visioni di ogni genere. Se riusciamo attraverso il rispetto e il dialogo a sintetizzare quello che vediamo, nasce una prospettiva con sintesi delle posizioni, che ha come background le cose che ci circondano ma come punto di slancio la mia idea innovativa che voglio portare avanti.
Quindi chi non osserva, fallisce?
Alcuni protagonisti del business non sono ricettivi, non lasciano che attecchiscano i semi, non si fanno contaminare dalla realtà. Senza pensare che poi c’è chi non ha mente critica per agire. Nel mondo del design anglo-sassone, la spinta arriva dal processo, il design thinking, loro celebrano il processo, gli strumenti. Il design italiano è di pancia, è artistico, sociale, diventa poetico. In realtà quello che faccio io è unire le due dimensioni. Cerco di avere un punto di vista con orginalità di pensiero e integrarlo coi processi del business.
Parlaci del tuo ruolo oggi. Riesci a essere libero di innovare?
Come professionsita inizi a capire come dosare i sogni in base alla realtà che ti circonda. La vittoria è creare qualcosa di vicino a quello che intendi. Il nostro ruolo è sempre spingere l’asticella il più possibile in avanti, costantemente ci ritroviamo in situazioni in cui il marketing o l’uomo del budget dice: questa cosa non si può fare. Il nostro ruolo è di rendere fattibile quello che non si era pensato di poter fare, anche a livello tecnologico. O magari spingere un business non ancora esplorato perché la società non ha ancora maturato interesse in quella direzione. Puoi arrivarci per primo, o magari affinando l’arte dello spingersi, capisci che è il momento giusto per arrivare al punto prefissato.
In una posizione come la tua, fanno paura i rischi?
I rischi connessi con l’innovazione ci sono sempre quando si fa qualcosa che non è successo prima e non si ha idea di come il pubblico reagirà finché non si è sul mercato. Puoi fare indagini minuziose ma non si può sapere come viene recepita la comunicazione, come si genera la reazione, se e quando reagisce il competitor. Ci sono mille variabili e per questo creiamo sistemi artificiali per testare i lanci. Può succedere di farlo su scala minore, scegliendo test market in Brasile o Australia, puntando sull’e-commerce, dove in piccola scala ci si affida al launch and learn. Devo riconoscere che se accantoniamo dei prodotti che non sono accettati dal pubblico, non li viviamo come fallimenti. Sono dei validi esperimenti.
Sei un eccellente comunicatore, oltre che creativo. Cosa ti muove?
È un mondo che non può più stare a galla solo con l’efficienza produttiva dettata dagli algoritmi finanziari. Oggi si vede molta più innovazione anche nel design, in tutte le aziende. La creatività è la linfa dell’innovazione. La curiosità è la parola chiave. Per me l’osservazione costante del mondo, le persone e i comportamenti, sono fondamentali. Nutrire la forma mentis con viaggi e libri, oltre che con le ricerche online, vale molto di più dell’accesso a miliardi di dati per interpretare i movimenti dei consumatori.
L’avanzata dell’Intelligenza Artificiale deve metterci in allerta?
Io mi reputo studente a vita, la curiosità è la mia salvezza e credo che se non c’è un essere umano dietro una macchina che interpreta i grandi dati è come avere una bella macchina senza Schumacher, il pennello senza Picasso. Quando si fa ricerca e design anche gli errori valgono, perché inseriscono la variabilità che il sistema artificiale non riesce a identificare. Il fattore umano è fondamentale.
Sei cosciente di dove sei arrivato?
Sì, lo so che abbiamo in PepsiCo 20 prodotti che fatturano più del miliardo di dollari. 40 prodotti appena sotto, che fatturano meno di un miliardo fino ai 250 milioni all’anno. La dimensione del lavoro è davvero complessa. Se cambio la grammatura del tappo di una Pepsi significa alterare potenzialmente un market share che vale miliardi. Per fortuna sono un creativo che capisce di business e tecnologia oltre che di design, che sono le tre cose fondamentali per continuare così.