Il design giapponese è sempre celebrato e ammirato per la sua capacità di sintesi, forza evocativa e minimalismo. Ma pochi si sono occupati del graphic design nipponico nei primi anni del 2000. Eppure molto è andato avanti e molto è successo. Un libro uscito per Skira, “L’arte del manifesto giapponese” di Gian Carlo Calza con la collaborazione di Elisabetta Scantamburlo, colma questa lacuna.
L’autore, insegna Storia dell’arte dell’Asia Orientale all’Università Ca’ Foscari di Venezia e dirige «The International Hokusai Research Centre». Si ritiene che i manifesti contemporanei giapponesi siano iniziati a metà degli anni ’50, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di depressione, post-militarismo e post-autarchia. La nuova modalità espressiva, in quegli anni, venne alimentata da stimoli provenienti dall’estero, ma reinterpreta anche temi e colori della tradizione, portandoli nella modernità. Dal dopoguerra, il Giappone ha visto una rapida evoluzione nelle arti.
In alcune culture il design pubblicitario e quello grafico sono ritenuti discipline separate. Per differenze nazionali o regionali, il design grafico è considerata una forma di contributo culturale e la pubblicità più una forma di contributo economico. Nel caso del Giappone, i confini tra design grafico e pubblicità sono inesistenti. Quindi in rassegna in questo libro passano libri, periodici, illustrazioni, pieghevoli, biglietti, iscrizioni, decorazioni sui materiali e oggetti più vari, per arrivare a video o canali e siti della Rete. Tutti sono protagonisti della raccolta di 520 pagine, che si propone oggi come il volume più completo, finora mai realizzato, sul graphic design giapponese.
Difficile dire quale tra questi linguaggi sia quello dominante. Il manifesto giapponese però ancor oggi sembra godere di una posizione privilegiata in patria, nonostante l’avanzatissimo livello di sviluppo raggiunto dal paese nel campo tecnologico e informatico.
Attraverso la presente, vasta selezione di artisti e di opere, questo volume copre una settantina di splendidi anni della storia del manifesto giapponese, una forma d’arte di pari dignità delle altre.
Il volume – che risulta il più completo sull’argomento finora mai pubblicato – vuole colmare una lacuna sulla storia della grafica giapponese, quella relativa ai primi due decenni del nuovo millennio,raccontando
da un lato il passato, con l’opera dei grandi maestri, e dall’altro esplorando nuovi nomi e tendenze.
Il libro è uno spaccato interessante dell’evoluzione dell’arte del manifesto, proprio perché in Giappone più che altrove la stampa su carta aveva raggiunto livelli altissimi ben prima dell’avvento delle tecnologie digitali. Un cambiamento con cui in ogni modo tutto il settore ha dovuto fare i conti. Come racconta il grafico Sakoh Taku nelle prime pagine del pregevole volume, al volgere del millennio, la progettazione e l’esecuzione di manifesti grafici giapponesi stampati in offset, che poggiavano su un’eredità artigianale di maestri della carta, dell’inchiostro e della tecnologia di stampa, avevano raggiunto la qualità della stampa
artistica. “I manifesti pubblicitari usavano diffusamente strategie miste che consentivano anche complesse strategie di roll-out, legate alla televisione e ad altri mezzi di comunicazione di massa. Con l’inizio del XXI secolo, tuttavia, la rapida convergenza verso supporti di comunicazione digitale portatile in tempo reale ha allontanato l’attenzione dei consumatori dalla cartellonistica. Penso sia giunto il momento di rivedere il ruolo del manifesto a immagine singola, dal punto di vista di una società in cui praticamente tutti
hanno in tasca un dispositivo audiovisivo ad alta risoluzione”.
A differenza delle immagini video, i manifesti sono un medium analogico ecologico che non richiede l’impiego di elettricità, un mezzo delicato fatto per la gratificazione, forse da riscoprire come è avvenuto per i vinili dopo decenni di oblio.