19 Luglio 2020

Urbanismo tattico, comunicare è condividere

Si parte col provvisorio (condiviso dai cittadini) e si arriva a quello che meglio serve alla comunità. Un movimento che arriva dagli USA che è già applicato anche in Italia.

19 Luglio 2020

Urbanismo tattico, comunicare è condividere

Si parte col provvisorio (condiviso dai cittadini) e si arriva a quello che meglio serve alla comunità. Un movimento che arriva dagli USA che è già applicato anche in Italia.

19 Luglio 2020

Urbanismo tattico, comunicare è condividere

Si parte col provvisorio (condiviso dai cittadini) e si arriva a quello che meglio serve alla comunità. Un movimento che arriva dagli USA che è già applicato anche in Italia.

Tra le agitazioni scoppiate negli Stati Uniti successivamente all’omicidio di George Floyd, si inscrive anche la manifestazione di protesta che si è materializzata sulla sedicesima strada a Washington nell’enorme scritta gialla Black Lives Matter ripresa da tutti i tg. Probabilmente i 170 m di vernice non ci hanno colpito solo per il messaggio veicolato e per il colore acceso, ma anche perché sono stati stesi sull’asfalto da decine di cittadini  che hanno lavorato insieme su incarico della stessa sindaca. Questo intervento sintetizza abbastanza bene cos’è l’urbanismo tattico (movimento statunitense “Tactical Urbanism” lanciato dallo studio di progettazione Street Plans), l’idea cioè che bastino pochi mezzi per cambiare parti di città con interventi sperimentali dal forte valore comunicativo.

Nel secolo scorso la pianificazione urbanistica ha modificato territori e spazi pubblici senza alcun tipo di consultazione cittadina, si è sempre trattato di un processo decisionale che ha visto coinvolte solo le figure dell’architetto-urbanista da una parte e il committente pubblico o privato dall’altra. L’urbanismo tattico vuole creare invece delle occasioni di confronto tra i vari interlocutori, che si tratti di“azioni dal basso” non regolamentate o di “azioni dall’alto” promosse da pubbliche amministrazioni, tecnici e associazioni. 

Per la popolazione può essere un’espressione di disobbedienza civile pacifica, o più semplicemente un modo per ottenere soluzioni senza il coinvolgimento della pesante macchina burocratica che richiede lunghi tempi di pianificazione. Consente cioè di soddisfare rapidamente ed efficacemente le esigenze dei residenti, un modo immediato per riappropriarsi o per riprogettare parte dello spazio pubblico e destinarlo alle persone, togliendolo al degrado, all’abbandono, al parcheggio selvaggio e all’uso inefficiente di una risorsa scarsa come il suolo.

L’urbanismo tattico dimostra che per incrementare la qualità degli spazi pubblici non è necessario spendere ingenti somme di denaro, come nei grandi masterplan, alcune soluzioni temporanee e a basso costo infatti, possono creare e sviluppare un cambiamento di lungo periodo, il fatto che si tratti di interventi provvisori poi, permette di valutarne l’impatto e decidere cosa rendere permanente e cosa no.

Se ci guardiamo intorno, scopriamo che c’è un’enorme quantità di spazio ancora non sfruttato dall’immaginazione: lotti vuoti, fronti commerciali inutilizzati, strade sovradimensionate, sottopassi, parcheggi di superficie e altri numerosi spazi pubblici; tutte queste superfici ci danno la possibilità di guardare le nostre città in modo nuovo, come un laboratorio di creatività in cui testare nuove idee in tempo reale. Usando in maniera efficiente le risorse, si cerca di spingere al massimo le potenzialità nascoste in questi luoghi in modo che i cittadini possano immediatamente riappropriarsi dello spazio pubblico e generare nuove pratiche d’uso dello stesso.

Molti di questi interventi in giro per il mondo sono una risposta alla presenza invasiva delle auto, all’inizio infatti si è trattato soprattutto di riverniciare le strisce pedonali in modo creativo per dimostrare che basta semplicemente colorare l’asfalto per far rallentare le auto. In un secondo momento sono arrivati le sedute, i tavoli da pingpong e tutta una serie di arredi per rendere confortevoli gli spazi riconquistati.

Ci sono molti esempi che potremmo definire precursori del fenomeno illustrato nel 2011 nel testo “Tactical Urbanism: Short-Term Action, Long-Term Change”. A Delft negli anni ’70 per esempio, un gruppo di residenti frustrati dai continui problemi legati alla sicurezza stradale, alla congestione e all’inquinamento causati dalle auto, stanchi della disattenzione della municipalità a queste problematiche, organizzò un’azione notturna di rimozione di parti di pavimentazione stradale con l’intento di creare difficoltà e rallentamenti a auto e moto. A Bristol invece, dopo una breve sperimentazione, la municipalità riconobbe i vantaggi di chiudere alcune strade di quartiere tre ore a settimana per permettere ai bambini di giocare liberamente e dalsuccesso dell’iniziativa nacque un’associazione chiamata “Playing Out” con l’obiettivo di diffondere queste pratiche. Un tipico esempio di open street è l’iniziativa chiamata “Ciclovìa” a Bogotà, ovvero la chiusura periodica alle auto di alcune vie della città per lasciare che le persone usino la strada come uno spazio per camminare, pedalare, danzare, fare attività fisica o semplicemente divertirsi. Bonnie Ora Sherk infine, artista e paesaggista americana, ha sviluppato una serie di installazioni a San Francisco come l’intervento “Portable Architecture” iniziato nel 1970 che può essere considerato il precursore di iniziative che oggi troviamo sparse in tutto il mondo come aree verdi pop-up o il Park(ing) Day. Finanziata con una piccola somma da parte del Museo delle Arti di San Francisco, realizzò tre “parchi portatili” costituiti da tappeti erbosi, piante, panchine e tavoli da pingpong da installare in varie parti della città per un periodo di tempo non superiore ai 4 giorni.

Tutti questi eventi non sono altro che politiche urbane a basso costo, nate dal basso e con grandi risultati in termini di partecipazione e diffusione di buone pratiche.

Esempi più recenti ci sono in tutto il mondo. Si va da quelli più strutturati, come a Barcellona dove è in atto da anni una vera rivoluzione urbanistica: un piano per togliere spazio alle auto e ridarlo a pedoni e ciclisti, con le cosiddette “superillas” ovvero “superblocchi”, cioè blocchi di nove isolati all’interno dei quali lo spazio della città viene tolto alle auto e restituito a pedoni e ciclisti; a quelli strettamente legati a interventi artistici e tempi brevi come a Santiago del Cile. Qui in soli 30 giorni più di 120 persone hanno trasformato Bandera Street, una delle strade più congestionate e iconiche della città, in una passeggiata colorata grazie a un intervento urbano che non ha precedenti in America Latina.

In Italia gli esperimenti più significativi sono stati fatti a Milano dove esiste da qualche anno il programma “Piazze Aperte” che mira a riportare lo spazio pubblico al centro del quartiere e della vita degli abitanti. L’obiettivo è far tornare le piazze a essere luoghi centrali della vita di quartiere, non più solo parcheggi o aree di passaggio, bensì aree da vivere in cui Comune di Milano e cittadinanza collaborano attivamente sia nella realizzazione concreta sia nella ideazione dei palinsesti, con la convinzione che restituire spazi ai cittadini per poter svolgere attività, incontri o anche solo per viverli,serve a dare un senso compiuto al termine piazza come luogo di relazioni del quartiere.

Un altro esempio che mi pace segnalare, è quello del Minocão di San Paolo, un’arteria sopraelevata dove ogni giorno transitano 78.000 veicoli, ma che di sera e nel fine settimana viene chiuso al traffico e ospita chi fa jogging, chi porta a spasso il cane, chi prende il sole, chi va in bici, etc. diventando a tutti gli effetti uno dei pochi spazi pubblici della città. Insomma sembra quasi avverarsi una mia fantasia di bambina: una grande festa in autostrada per un giorno preclusa alle auto e aperta a pedoni, musica, biciclette, giochi, picnic!

In foto: la piazza di NoLo, ribattezzata “Arcobalena” dai milanesi che da circa un anno l’hanno adottata come centro privilegiato di aggregazione e svago.

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Emilia Abate

Emilia Abate, architetto, si laurea col massimo dei voti presso l’Università Federico II di Napoli, ma solo negli anni successivi scopre che la sua vera vocazione è il progetto. Con Francesco Rotondale e lo STUDIO74RAM si occupa di progettare case, uffici, chiese, negozi, arredi, prodotti. Alcuni lavori sono stati oggetto di mostre, pubblicazioni, premi in concorsi nazionali e internazionali. Dal 2016 fa parte del direttivo di Radicity, un’associazione che si occupa di rigenerazioni urbane ecosostenibili. Dal 2020 ha deciso di condividere con i lettori di The Way Magazine le sue riflessioni su design, architettura e urbanistica. Vive e lavora a Napoli.
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