Pantone LLC è l’azienda statunitense che cataloga i colori in una modalità che è divenuta norma internazionale per la grafica, ma non solo. Ogni anno il Pantone Color Institute dichiara qual è il colore dell’anno, e per il 2020 ha indicato come tale il 19-4052 Classic Blue, tinta che infonde “calma, fiducia e connessione”.


Ma il blue è sempre stato il colore della tranquillità? E quanti blu esistono in natura? Sapevate che tutti, anche i non vedenti, hanno un recettore speciale in grado di percepire la luce blu? È proprio la nostra risposta a questa porzione dello spettro visibile a stabilire i ritmi circadiani, ed è il motivo per cui oggi, che siamo sovraccaricati di luce blue (schermi retroilluminati, telefonini), abbiamo problemi con i ritmi del sonno.
A quanto emerge da alcuni sondaggi, attualmente il blu sembra il colore preferito dalle persone, al di là di latitudine, cultura e ambiente, ma non è sempre stato così. Ad esempio per gli Egiziani questo colore rappresentava il cielo, il Nilo, la creazione e la divinità, mentre l’Occidente non aveva neanche una parola specifica per indicare la porzione di spettro tra il verde e il violetto. Durante il paleolitico e il neolitico la scena era dominata da rosso, nero e marrone. I Greci e i Romani preferivano invece nero, bianco e rosso. Per i Romani in particolare, il blu era associato alla barbarie, e indossarlo significava lutto e sfortuna.
Solo durante il Medioevo la Vergine Maria iniziò ad essere rappresentata vestita di blu. Cominciarono ad aver fortuna allora il blu oltremare e l’indaco, ma erano così costosi da estrarre da alimentarne il desiderio e la domanda fino all’800 quando vennero create alternative sintetiche.

Di blu oltremare, derivante da lapislazzuli frantumati, erano dipinti uno dei due Buddha di Bamiyan, il cielo cosparso di stelle del Bacco e Arianna di Tiziano, la Madonna in preghiera del Sassoferrato. Intorno al 1830 un chimico francese riuscì a creare un blu oltremare sintetico; successivamente, ritenendo questo blu troppo piatto su tela, Yves Klein ne brevettò un’evoluzione: l’International Klein Blue che raggiunse la brillantezza del suo antenato originale. Sempre nell’800 fu sintetizzata un’altra alternativa al blu oltremare: il cobalto, e fu proprio la presenza di questa tinta nei lavori di Van Meegeren, a far scoprire che i Vermeer che vendeva erano in realtà dei falsi dipinti da lui stesso.
Il blu di Prussia invece, nacque agli inizi del ‘700 per caso e per sbaglio. Profondo e molto freddo, fu la sfumatura preferita da Picasso nel suo periodo blu, mentre Anish Kapoor lo ha usato per la sua scultura A Wing at the Heart of Things. Anche l’ultima tonalità blu ad essere creata, lo YInMn, è stata una scoperta fortuita e inattesa, e grazie ad essa il chimico indiano che l’ha sintetizzata è diventato famoso in tutto il mondo.
Esistono tanti altri tipi di blu, ad esempio il blu elettrico che è il colore del fascio di luce sprigionatosi a Cernobyl, delle scintille e dei lampi. Esso è associato a un destino controllato dalle tecnologie, non per niente è il colore dei film Minority Report, Inception, Wall-E. Di color ceruleo, o azzurro cielo, molte divinità indù hanno la pelle, per dimostrare la loro affinità con l’infinito, così come accade per molti edifici della Chiesa di Scientology. Questi non sono diventati certo famosi come esempi di architettura contemporanea, ma forse un giorno ne entreranno a far parte la Blue Tower di New York di Bernard Tschumi dove l’involucro in vetro caratterizzato da molteplici sfumature di blu conferisce all’edificio un aspetto pixelato che ne enfatizza l’insolita geometria, o il Didden Village degli olandesi MVRDV. Quest’ultimo è stato costruito come un’addizione dell’appartamento sottostante a mo’ di villaggio per bambini con tanto di alberi e panchine, una sorta di città nella città che distacca nettamente dall’architettura circostante fatta per lo più di mattoni faccia vista.
L’elemento più caratteristico e provocatorio è il materiale con cui questi volumi sono rivestiti: il poliuretano blu usato tradizionalmente come isolante nascosto all’interno dei pacchetti murari. Famosa per l’uso del colore blu è la città marocchina di Chefchaouen (foto d’apertura), non si sa se per simulare il Paradiso, o, meno romanticamente, per tenere lontani gli insetti simulando il mare. Mentre la prima immagine che mi viene in mente pensando al blu associato a degli interni, è l’Hotel Parco dei Principi di Sorrento, probabilmente il primo design hotel del mondo, con le insuperabili ceramiche disegnate da Gio Ponti e oggi prodotte da Francesco De Maio. Nel campo dell’arredamento, a parte poltrone, lampade e tavoli che utilizzano il blue come uno dei numerosi colori all’interno di una gamma ben più vasta, sono pochi gli arredi intimamente legati a questa tinta, uno su tutti la sedia rossa e blu che Rietveld realizzò dopo l’adesione al gruppo De Stijl che predicava un’arte in grado di restituire la struttura ideale dello spazio attraverso armoniosi rapporti proporzionali tra le zone e i colori.
Insomma, oggi che cerchiamo ostinatamente di far cadere le differenze di genere e le consuetudini così sessiste radicate nella nostra cultura, quando dipingiamo di blu le pareti di casa, smettiamola di associare questo colore al genere maschile, e pensiamo ad altro: per esempio che questa tinta, dopo essere stata un bene di lusso, si è riciclata come il colore della forza operaria, o che è diventata protagonista dell’abbigliamento con i blue jeans definiti da Armani “la democrazia nella moda”. O ancora, pensiamo al mondo anglosassone dove il blu è il colore della malinconia (avete presente il blue Monday?), o alle divise della marina militare tinte di blu navy per meglio resistere a sole e mare.
Ma forse sarebbe meglio non pensare proprio a niente, azzerare ogni retaggio culturale e riempire di blu le nostre stanze, le nostre case, le nostre città. Quest’anno.
Poi l’anno prossimo faremo come vorrà Dio. O come vorrà Pantone.