In questi giorni a Scampia è in corso la demolizione della vela verde, uno dei sette edifici costruiti tra il 1962 e il 1975 a Napoli in quella da tutti conosciuta come la “167” dal numero della Legge che obbligò i comuni con più di 50.000 abitanti a individuare zone da destinare ad alloggi a carattere economico o popolare.
Tre edifici erano già stati demoliti in passato, attualmente quindi ne rimangono in piedi altri tre, di cui due saranno abbattuti, e uno, la vela celeste, recuperato per ospitare gli uffici della città metropolitana di Napoli secondo il progetto di riqualificazione Restart Scampia. Restart Scampia è un vero piano di rigenerazione urbana che si propone di trasformare il quartiere da margine a nuovo centro dell’area metropolitana mediante una serie di interventi tra i quali l’abbattimento delle vele, la realizzazione di scuole, alloggi di edilizia residenziale pubblica, strutture commerciali e per il tempo libero, e della facoltà di medicina e chirurgia.

Quando gli fu affidato l’incarico, l’architetto Franz Di Salvo pensò a edifici iconici a forma di ziqqurat con spazi interni di connessione ispirati ai vicoli napoletani, proponendo così una dimensione urbana alternativa alla frammentazione delle periferie tipica dell’epoca, abbracciando al contempo il principio dell’existenzminimum: ridurre al minimo indispensabile l’unità abitativa a vantaggio di spazi comuni per favorire l’integrazione degli occupanti.
Fin qui le premesse, il progetto, le intenzioni. Ma veniamo alla realtà…

In realtà gli edifici furono realizzati avvicinandoli a tal punto da trasformare in canyon bui gli spazi tra gli stessi, gli ambienti collettivi non furono mai realizzati e la manutenzione è stata completamente trascurata negli anni, fino a trasformare l’intero quartiere in simbolo di degrado, malaffare e camorra. Dunque, qual è il peccato mortale delle vele di Scampia? Di chi è la colpa di quel cemento sgretolato e di quella cocaina e di tutti i reati a cui sono legate? L’architetto Franz Di Salvo è colpevole o innocente?
Da ogni parte si sente definire la storia delle Vele un fallimento e non si vuole qui mettere in discussione questo, quanto piuttosto sottolineare che non è stato un fallimento dell’architettura. O meglio, non è stato un fallimento del progetto architettonico di Di Salvo. È vero che la responsabilità che noi architetti abbiamo quando progettiamo una città, un edificio, ma anche un singolo appartamento, è enorme, forse non ce ne rendiamo abbastanza conto neanche noi stessi, e di certo non ce ne dà atto la società in cui viviamo, per lo meno quella italiana.
Ma è altrettanto vero che progettare ambienti di qualità non basta, l’esecuzione degli stessi è fondamentale per la buona riuscita dei nostri progetti. L’utilizzo di materiali scadenti e la cattiva esecuzione di particolari costruttivi compromettono la qualità finale dell’opera. Un altro aspetto fondamentale sempre troppo sottovalutato è quello della manutenzione. In Italia si fa poca manutenzione del territorio, lo sentiamo spesso dire riguardo ai dissesti idrogeologici oggi così frequenti, ma si trascura altrettanto il patrimonio edilizio.



Se un complesso come le Vele fosse stato realizzato come da progetto, se fosse stato costruito con accortezza, ma soprattutto se fosse stato manutenuto, ora non sarebbe nelle condizioni in cui appare. Credo fortemente negli effetti che il degrado ambientale può avere sulle persone, altrettanto fermamente credo nel potenziale socialmente trasformativo dell’architettura, nel miglioramento della qualità della vita delle persone attraverso l’ambiente costruito. Per questo è arrivato il momento che i bravi architetti tornino a lavorare nel settore pubblico e che le persone delle classi meno abbienti riconquistino la loro capacità di chiedere, anzi di pretendere, un’abitazione dignitosa.
Ma quello che più di tutto non ha funzionato a Scampia, è altro. Come e quando sono stati realizzati gli spazi verdi, gli spazi aggregativi e le infrastrutture pubbliche per raggiungere il centro della città? Le opere di urbanizzazione primaria e secondaria devono essere realizzate prima, non dopo i complessi abitativi (questa è una delle prime cose che ricordo di aver sentito dire durante la mia formazione universitaria!). Le une, senza gli altri, non funzionano.
Un complesso residenziale “equilibrato” deve avere al suo interno luoghi di aggregazione, luoghi per lo sport, cinema, teatri, scuole, aree verdi, negozi di prossimità e presidi di legalità quali uffici pubblici, ospedali, caserme. Gli studi effettuati negli ultimi anni hanno inoltre dimostrato che non può funzionare un complesso abitativo in cui non è garantita la mescolanza, concentrare in uno stesso posto solo e unicamente persone disagiate, rischia di creare ghetti. Oggi infatti più che di edilizia residenziale pubblica, si parla di edilizia residenziale sociale (social housing) che accoglie in un unico complesso sia alloggi popolari, promossi da enti pubblici, che alloggi privati gestiti da fondazioni o cooperative, con l’obiettivo di garantire benessere abitativo e integrazione sociale.
Nell’edilizia residenziale sociale, a differenza di quella pubblica dove si attinge a liste e graduatorie che tengono conto solo del disagio economico, si fa molta attenzione alla selezione degli abitanti in modo da creare comunità variegate ed equilibrate: giovani, coppie, single, anziani, disabili, studenti. Viene data grande importanza al risparmio energetico e alla condivisione, la stessa comunità viene coinvolta direttamente fin dalla fase progettuale in modo che siano garantiti i suoi reali bisogni. Esempi ce ne sono in tutto il mondo, e anche qui in Italia qualcosa comincia a muoversi, soprattutto a Milano.
E a Napoli che si fa? Si sceglie di combattere il degrado abbattendo gli edifici che lo hanno rappresentato. Ma siamo proprio sicuri che trasformarli nell’emblema della rinascita non sarebbe stato un messaggio molto più forte e dirompente da dare a Napoli, all’Italia, al resto del mondo?
Certo così com’erano risultavano ormai invivibili, ma sono invivibili anche i bassi del centro storico. Che vogliamo fare, abbattere anche quelli? Le Vele erano comunque un simbolo potente entrato a far parte dell’immaginario collettivo grazie al serial “Gomorra”, quanto sarebbe stato dirompente il messaggio veicolato dalla loro trasformazione? Sarebbero potute diventare un terreno di sperimentazione con tagli, cuciture, demolizioni o aggiunte, un laboratorio in divenire in cui i cittadini di Scampia avrebbero potuto finalmente essere parte attiva del cambiamento e non solo subire lo spostamento da un alloggio a un altro, tanto più se privo di qualsiasi qualità architettonica, come è accaduto con quelli realizzati in via Gobbetti (dove sono stati spostanti gli abitanti delle Vele).
Non era forse questo il momento giusto per Napoli di coltivare l’ambizione di competere a livello internazionale non solo per le stazioni dell’arte o per il flusso turistico, ma anche per una visione contemporanea e coraggiosa sul grande tema di questo secolo: le periferie urbane?
Ecco perché io come spettatrice non mi unisco agli applausi in diretta tv: ogni pietra che viene giù mi pare un’occasione mancata, un tentativo non del tutto riuscito di voltare pagina.
Foto d’apertura: vedute delle Vele a Napoli – Dario Guglielmi